Chiara Zamboni
“Quelli come noi che son venuti su un po’ strani” cantava Claudio Lolli in un disco che ho amato molto. E per questa stranezza, per questo senso di inquietudine, di essere sempre leggermente fuori posto, e per la scommessa che di questa stranezza si potesse fare una invenzione politica, non da sola, ovviamente, ma nell’agire con altre e con altri, è passata una parte della mia vita. Così mi sento ancora una volta fuori posto, a disagio rispetto alla piega che ha preso la discussione sui patti di convivenza. Come ha segnalato Nichi Vendola su la Repubblica di qualche tempo fa, accanto al matrimonio c’è in Italia una grande proliferazione di forme di relazioni amorose e di convivenza che sfuggono al matrimonio: etero, gay, coppie fondate su un semplice patto di mutua assistenza. Questa molteplicità di forme provoca tutti, laici e cattolici a interrogarsi su che cosa sia oggi amore, impegno alla fedeltà, legame tra affetto, sessualità e amicizia. I patti di convivenza dunque non inventano un fenomeno, ma danno delle garanzie sacrosante a donne e uomini che incontriamo dappertutto accanto a noi.
Il mio disagio non riguarda certo la richiesta di garanzie essenziali come la possibilità di assistere la compagna o il compagno in situazioni di emergenza, ottenendo licenze dal lavoro di solito permesse solo per i famigliari, oppure di avere garantita la possibilità di continuare ad abitare la casa che si viveva in comune, o una certa sicurezza economica: tutte questioni materiali fondamentali, che toccano la vita quotidiana di queste coppie. Quello che mi inquieta è che nella discussione sulle varie proposte di legge in discussione, il metro di riferimento sia sempre il matrimonio. Sui giornali ho visto tabelle che a sinistra collocano il matrimonio con i suoi diritti e poi, via via, da sinistra a destra le proposte di Pacs più vicine al matrimonio quanto a diritti garantiti. Dove è evidente l’idea suggerita: quelle più vicine sarebbero, per così dire, più progressiste e coraggiose, quelle più lontane timorose e un po’ oscurantiste. Di modo che l’unica misura della discussione risulta essere comunque il matrimonio, la famiglia e i diritti ottenibili dallo stato. Bene, se dovevamo fare nella nostra vita un percorso così lungo di sperimentazione di forme diverse di vita – con tutti gli errori, nel senso dell’errare e del camminare un po’ a caso che questo ha comportato -, per ritrovarci poi col matrimonio come unica misura di valutazione di questa sperimentazione, penso che il motivo della mia delusione sia evidente.
Non sto tanto parlando a favore o contro la famiglia, sto suggerendo che “l’esser venuti su un po’ strani” lo abbiamo mostrato in pratiche, in scelte, in azioni politiche in sintonia con la sfera affettiva dell’amicizia e dell’amore. Senza separare troppo l’una dall’altro. E che dare spazio di invenzione a modi di amarsi nuovi e diversi, può aprire una campo di libertà e di pensiero per le ragazze e i ragazzi che iniziano ora a orientarsi nelle loro scelte esistenziali.
Forse sono stata facilitata in questo dall’essere donna, dal fatto che per le donne della mia generazione ci sono stati diversi percorsi, coinvolti direttamente o indirettamente nel femminismo, cioè in una vera e propria rivoluzione nel modo di vivere gli affetti, la sessualità, l’amicizia, nel modo di pensare i rapporti d’amore con le donne e gli uomini. Il parlare di erotismo diffuso non sfociava inevitabilmente in una esperienza sessuale, ma ne apriva la porta a chi voleva sperimentarla. Erano gli anni in cui Mary Daly, una teologa cattolica, femminista e lesbica, scriveva in Al di là di Dio Padre che la contrapposizione tra eterosessuali e omosessuali faceva il gioco del patriarcato separando le donne tra loro. Il femminismo ha modificato profondamente il nostro presente, segnandolo in modo irreversibile.
Oggi ci sono pensatori che si esprimono in modo simile. Gianni Vattimo ad esempio ha scritto recentemente in La gaia utopia che, di fronte all’alternativa tra il pragmatismo di quella parte del movimento gay che chiede più diritti cercando di riprodurre nei rapporti omosessuali la “normalità” del matrimonio da una parte, e dall’altra l’ansia rivoluzionaria di trasformare alla radice la società, la sua vocazione è quella profetica. Nel senso che la vocazione omosessuale, vissuta non come una faccenda superficiale, implica la messa in discussione di molte più cose di quante non si creda e non si vorrebbe. Porta ad uno sguardo di verità.
In lui, come anche in Michel Foucault, è presente la tensione verso una apertura creativa di azione e di pensiero, che, pur appoggiando la questione dei diritti, li mette sullo sfondo. Non ne fa il centro del discorso. In una intervista del 1984 Foucault invita a non chiudersi nella difesa di una identità gay: piuttosto ad inventare nuove forme di vita, di rapporti, di amicizia nella società, nell’arte, nella cultura. Per un divenire trasformativo: il movimento omosessuale ha bisogno di trovare una vera e propria arte di vivere. E i passaggi essenziali sono quelli di mettere al centro un piacere non ossessivamente identificato con la sessualità e un senso nuovo e sperimentale di amicizia.
Proprio questo è mancato nel dibattito sui patti di convivenza: un pensiero che apra ad un senso nuovo dell’amore, visto nella prospettiva più ampia dell’amicizia. E il fatto che questo amore-amicizia possa prendere più forme, nelle quali c’è comunque piacere, erotismo, senza escludere, ma senza identificarlo con la sessualità.
Credo che in molti che scelgono la via di legami diversi da quello del matrimonio vi sia il desiderio di altro, la fedeltà profonda ad un sogno non ancora sognato, che porta a compiere scelte nella propria vita materiale in un processo non lineare, pieno di svolte e di ripensamenti. Certo anche per queste diverse forme di convivenza c’è bisogno di una condivisione pubblica, di modo che il legame intimo, in cui si è impegnati interiormente, si inscriva nel simbolico. Ma a chi desideriamo veramente affidare la forza di uno sguardo altro, che ci rimandi simbolicamente l’esistenza pubblica di tale legame? Pensare di affidarlo alle istituzioni impersonali dello stato significa evitare questa domanda. Che è comunque una domanda difficile, perché porta a chiederci che cosa sia autenticamente spazio pubblico, relazione di visibilità allo sguardo degli altri, e come e in quali modi sia per noi necessario, possibile, desiderabile esserci.