(…) Molte donne potrebbero avvantaggiarsi di possibilità e stratagemmi simili. Ma le grandi questioni che vorrei affrontare non si risolvono tollerando lo status quo. E non credo che avere pazienza possa essere una scelta, anche se probabilmente i cambiamenti saranno graduali. Se consideriamo che le donne britanniche hanno il diritto di votare da appena un secolo, dovremmo congratularci per la rivoluzione che è avvenuta da allora. Ma, se le strutture culturali profonde che legittimano l’esclusione delle donne sono quelle che ho descritto, un approccio graduale richiederà troppo tempo. Dovremmo rilettere invece su cosa è il potere, e a cosa serve. In altre parole, se nella nostra percezione le donne non trovano pienamente posto all’interno delle strutture del potere, forse è il potere che ha bisogno di essere ridefinito, non le donne.
(…) Ma questo significa ancora considerare il potere come una questione elitaria, abbinata al prestigio, al carisma individuale della cosiddetta leadership , e spesso, anche se non sempre, a un certo grado di celebrità. Significa anche considerare il potere in un’accezione ristretta, come qualcosa che solo pochi – per lo più uomini – possono esercitare. Da un potere così, le donne in quanto genere – non come singoli individui – sono escluse per definizione. Non è facile inserire le donne in una struttura che è già codificata come maschile. Bisogna cambiare la struttura. Questo significa concepire diversamente il potere: bisogna separarlo dall’idea di prestigio, ragionare in termini di collaborazione, pensare al potere della base e non solo dei leader. Significa vedere il potere come un attributo o perfino un verbo, non come qualcosa da possedere: il potere è la capacità di essere efficaci, di fare la differenza nel mondo, e il diritto di essere presi sul serio.
(Internazionale, 31 marzo 2017)