di Arianna Marchente
Ci sono persone che, fino a un certo punto della tua vita, non sapevi neanche esistessero. Poi, per una serie di coincidenze, ne scopri la storia e ti chiedi come hai fatto a vivere fino a quel momento senza conoscere le loro vite, la loro arte e il loro lavoro.
A proposito di coincidenze qualche settimana fa un’amica mi ha messo tra le mani un libro: il titolo era Scandalose – vite di donne libere, e l’autrice era Cristina de Stefano. Si tratta di una raccolta di brevi biografie di donne scandalose, che hanno cioè avuto il coraggio di tuffarsi di testa nella vita, facendosi male, ma trovando sempre la forza di rialzarsi. È così che ho conosciuto per la prima volta Niki de Saint Phalle, pittrice, scultrice (e moltissime altre cose) di origine francese.
Catherine Marie-Agnés Fal de Saint Phalle nasce a Neuilly-sur-Seine, in Francia, nel 1930. La sua è una famiglia numerosa (lei è la seconda di cinque figli) e particolarmente benestante: la madre è un’attrice statunitense, tanto bella quanto fredda e severa, mentre il padre è un ricco banchiere francese. Il crollo finanziario del ’29 costringe la famiglia a espatriare, e così Niki si trova a vivere a New York. D’estate torna però sempre in Francia, ospite al castello Filerval dei nonni, dove corre, gioca, si rotola nell’erba e familiarizza con la servitù – tutte cose giudicate troppo ribelli e “da maschiaccio”, per una bambina dei tempi.
Facciamo subito una premessa: la particolarità della vita di Niki è data dalla sua capacità di trasformare il dolore dato da un trauma esistenziale in creatività, di mettere la sua vita al servizio dell’arte. L’animo di Niki subisce infatti un colpo durissimo a soli 12 anni, quando suo padre abusa di lei. Come osserva Cristina de Stefano Niki troverà la forza di raccontare questo episodio solo moltissimi anni dopo, poco prima di morire:
L’estate dei serpenti fu quella in cui mio padre, il banchiere, l’aristocratico, mise il suo sesso nella mia bocca
Il primo canale di sfogo Niki lo trova nella letteratura: ha 13 anni quando inizia a scrivere poemi erotici che regala alle sue compagne. Parallelamente crescono dentro di lei la paura e la diffidenza: se la persona che l’ha messa al mondo è stata in grado di farle del male allora chiunque potrebbe rifarglielo. Così inizia a portarsi sempre in giro degli strumenti di difesa: soprattutto bastoni e coltelli.
Nel 1947 si diploma alla Oldfield School, nel Maryland, e l’anno successivo torna a New York, dove posa per Vogue e Harper’s Bazar. È proprio qui che, a soli 17 anni, conosce Harry Mathews, un giovane come lei, appartenente a una famiglia aristocratica che si aspettava da lui una carriera precisa e istituzionale, mentre lui amava una sola cosa: la poesia. Niki e Mathews si riconoscono a pelle, si innamorano, si sposano velocemente in comune e scappano insieme. Nel giro di pochissimo tempo mettono al mondo due figli e si trasferiscono a Parigi, vivendo di rendita. Ma Niki non sta bene, le sue ansie e le sue paure crescono ogni giorno e con l’appoggio del marito decide di farsi curare. Viene rinchiusa per due mesi in un ospedale psichiatrico, dove subisce diversi elettroshock. Tra le mura del manicomio l’unica cosa che le permette di sopravvivere è l’arte: utilizza qualsiasi materiale e qualsiasi colore, per tagliare, incollare e produrre opere. Ed è in questo momento così delicato che comprende la sua vocazione: essere un’artista.
Quando torna a casa nessuno la può più fermare. Inizia a creare, soprattutto sculture, ma non solo. Si integra perfettamente nell’ambiente culturale francese e conosce diversi artisti, tra cui Jean Tinguely, scultore svizzero, di cui si innamora. Nel 1957 divorzia da Mathews e si trasferisce a vivere con Jean. L’arte la aiuta a esorcizzare il trauma dell’incesto, ma non è ancora abbastanza: in lei continua ad abitare un bisogno viscerale di sfogare rabbia e violenza. Deve trovare un modo per incanalare questo bisogno nell’arte. Come fare? La risposta arriva per caso, un giorno del 1961, in cui Niki appende una camicia a un quadro e mette al posto della testa un bersaglio. Inizia a colpire questa figura con le freccette: chiunque sia vuole eliminarla. Capisce che questa è la strada giusta, sostituisce alle freccette una carabina e inizia a sparare alle sue stesse opere. Da qui nasce Tiri o Shooting paintings, un’esibizione durante la quale il pubblico o Niki sparano contro una serie di palloncini pieni di pittura, che una volta colpiti esplodono contro una superficie colorandola.
Nel 1961 ho sparato su mio papà, su tutti gli uomini, sui piccoli, sui grandi, sugli importanti, sui grossi, su mio fratello, la società, la chiesa, il convento, la scuola, la mia famiglia, tutti gli uomini, ancora su mio papà, su me stessa.
In breve tempo, con i Tiri, la sua fama diventa mondiale e l’immagine di una donna che imbraccia un fucile puntandolo contro le sue stesse opere diventa quasi iconica. Eppure questo è solo l’inizio. Grazie ai Tiri Niki ha potuto sfogare la sua rabbia, ora ha bisogno di crescere, ha bisogno di trovare un modo per onorare le donne, che le piacciono così tanto, e per far brillare quella che secondo lei è la dote principale della femminilità, che ha imparato sulla sua stessa pelle: la resilienza, nella sua forma allegra e gioiosa. Per farlo non può che partire dal corpo delle donne. L’idea le viene guardando il profilo di una donna incinta: è l’origine delle Nanas.
Le Nanas sono sculture femminili a grandezza naturale e sproporzionate. Sono donne con la testa piccola e il corpo grande, spesso formose e sempre coloratissime, capaci di assumere qualsiasi posizione. Ballano, combattono, stanno in equilibrio: qualsiasi cosa facciano le Nanas si divertono, sono sempre allegre e al tempo stesso erotiche. È questa la loro potenza, così dirompente che si inizia a parlare del Nana Power e tutte le gallerie d’arte ne vogliono avere almeno una. La più famosa Nana Niki la realizza però con l’aiuto di Jean per il Moderna Museet di Stoccolma, nel 1966. Si chiama Hon/Elle ed è una Nana lunga 28 metri, alta 6 e larga 9, sdraiata per terra in posizione da partoriente, quindi con le gambe divaricate. All’interno della Nana Niki posiziona un bar e un planetario (situato nel seno) a cui il pubblico può accedere passando attraverso la vagina.
Tra Niki e Jean nel frattempo le cose vanno sempre meglio, così, dopo aver ottenuto i rispettivi divorzi, decidono di sposarsi. La loro è un’unione forte, non solo sentimentale, ma soprattutto artistica, non a caso vengono soprannominati i Bonny and Clyde dell’arte. Insieme realizzano moltissimi progetti importanti, soprattutto fontane, come Le Cyclop di Milly-la-Foret o La Fontana di Stravinsky a Parigi. Ma soprattutto collaborano insieme alla costruzione del meraviglioso Giardino dei Tarocchi, a Capalbio, in Toscana: un’area fuori dal mondo, piena di statue incantevoli e mosaici colorati, ispirata al Parc Güell di Gaudì.
Donna con un fucile, capace di capire che la vera forza sta nella vulnerabilità e nella fragilità, madre, artista instancabile, compagna di vita e di lavoro, Niki è morta nel 2002, a causa di una malattia respiratoria. Nella sua vita ha amato tre cose: l’arte, i suoi figli e, in modo incondizionato, tutte le altre donne.
Gli uomini sono molto inventivi. Hanno inventato tutte queste macchine e l’era industriale, ma non hanno nessuna idea di come migliorare il mondo.
(freedamedia.it, 15/09/2017)