di Dario Di Vico
Il modello produttivo che ha storicamente caratterizzato Milano, un modello concentrato, basato sulla grande impresa manifatturiera, ha ormai lasciato il posto alle moderne filiere. Ma non sono stati i colossi a rendere Milano pregiata, bensì l’essere diventata un laboratorio creativo. È qui che vengono gli operatori internazionali per imparare, e da Milano questo approccio si è esteso a tutto il made in Italy. Le energie e risorse sono state intercettate da una “borghesia delle competenze”, vitale protagonista di questa rinascita, che ha saputo rinnovarsi e che ha potuto agire tramite canali meno esposti, silenziosamente tessendo e consolidando reti internazionali di eccellenza – dalle università al design – che hanno consentito un’apertura al mondo di Milano, oggi città cosmopolita con un notevole “apporto di capitale umano dall’estero” all’attivo.
Sempre alla voce capitale umano va segnalato, infine, lo straordinario contributo delle milanesi, del ‘fattore D’ per dirla con il libro anticipatore di Maurizio Ferrera.
Una recente ricerca condotta da Roberto Cicciomessere e Lorenza Zanuso non solo ha messo in luce una grande partecipazione al mercato del lavoro delle donne nell’area metropolitana ma ha consentito di operare un paragone con due città europee simbolo dell’avanzata femminile come Stoccolma e Londra. Ebbene, mentre nel caso svedese la partecipazione al lavoro delle donne è rimasta comunque segregata per lo più nell’ambito delle occupazioni tradizionalmente femminili (sanità e scuola in testa), a Milano questa gabbia è stata superata e l’arco delle professioni che vedono impegnate le donne comprende largamente il terziario avanzato. Al punto che non risulta lunare una comparazione con la capitale inglese che il processo di valorizzazione del fattore D lo aveva iniziato molto tempo prima.
(Corriere della Sera, 2 ottobre 2017)