Venti autori a Torino raccolti a convegno dal premio Grinzane Dopo il deserto Considerati ancora come esponenti di una letteratura «ingenua», gli autori africani si rivelano particolarmente capaci di unire tradizione e modernità
Maria Teresa Carbone
Pochi giorni fa un grande griot africano, il burkinabé Toumani Kouyaté, dichiarava in una intervista che «il ruolo della parola orale nella società africana resta imprescindibile perché è il solo tratto che unisca tutto il continente». E aggiungeva: «Sebbene rivesta sicuramente una funzione tutt’altro che secondaria nei nostri paesi, non sarà la scrittura a dare valore all’oralità africana. Semmai, è il rispetto della tradizione orale a riecheggiare nella nostra scrittura». Elemento davvero ineludibile nel momento in cui si affronti l’opera di uno scrittore africano, questa influenza della voce sulla pagina scritta rischia tuttavia di diventare – quando non la si accosti con una giusta miscela di rigore e di elasticità – uno stereotipo, fastidioso come tutti gli stereotipi.
Ben venga dunque il convegno che, su iniziativa del premio Grinzane Cavour, si apre oggi con una lectio magistralis di Nadine Gordimer e prosegue fino a sabato a Torino, chiamando a raccolta una ventina di scrittori uniti – sia pure da prospettive assai diverse fra loro – da un comune denominatore africano. E che proprio su questo tema invita a riflettere già a partire dal titolo, Il deserto e dopo. La letteratura africana dall’oralità alla parola scritta: un titolo per la verità ambiguo che parrebbe istituire l’ipotesi di una «evoluzione» da uno stadio orale (primitivo? arcaico? addirittura «desertico»?) a un «dopo» caratterizzato dalla scrittura.
Sarà quindi interessante vedere come si confronta con questa ipotesi il giovanissimo Uzodinma Iweala, nato venticinque anni fa negli Stati Uniti e «ritornato» oggi a vivere nel paese dei suoi antenati, la Nigeria, che nel romanzo Bestie senza una patria (uscito per Einaudi Stile Libero e tradotto con grande efficacia da Alessandra Montrucchio) ha elaborato un vero esercizio di «oralità», dando voce a un bambino-soldato attraverso l’uso di un linguaggio particolarissimo, una sorta di pidgin English riadattato, che prova a riprodurre l’inglese così come viene parlato quotidianamente dai nigeriani.
Un «esercizio di oralità» lo compie anche un’altra ospite della kermesse torinese, la camerunese (trapiantata in Costa d’Avorio) Werewere Liking nel suo La memoria amputata (Baldini Castoldi Dalai, traduzione di Laura Colombo) che già dal frontespizio si autoproclama come un «canto-romanzo». Forte delle proprie esperienze di autrice e regista teatrale, Liking – che nel suo paese d’adozione anima dal 1985 una comunità per artisti e ragazzi di strada, il Ki-Yi M’Bock Village – scandisce la sua opera in «tempi», alternando il flusso di ricordi della protagonista, Halla Njocké, con testi poetici: «Il canto, il mito, l’epopea – scrive Liking – cosa c’è di più appropriato per permettere di ricordare per sempre i fatti quotidiani, abbellirli e purificarli».
Esercizi di oralità, quelli di Iweala come di Liking, che rivelano una consapevolezza molto lontana da quella «naïveté» che in tanti continuano ad attribuire agli scrittori africani, dimenticando come questi autori abbiano compiuto un percorso complesso, che coniuga le tradizioni antiche del continente con una conoscenza assai moderna e approfondita dei testi e dei metodi critici «occidentali». Come nel caso, del togolese Sami Tchak, fra gli autori invitati a Torino, che nei suoi saggi e nei suoi romanzi (uno solo dei quali, La festa delle maschere, pubblicato in italiano per Morellini) non dimentica la sua formazione di antropologo e intesse il suo racconto di citazioni non solo letterarie. O dell’angolano Ondjaki (di cui le Edizioni Lavoro hanno proposto, per le cure di Vincenzo Barca, due romanzi, Il fischiatore e Le aurore della notte) che porta nella sua opera tanto le sue esperienze di sociologo quanto la sua passione per il cinema. O di Musaemura Zimunya, che ha lasciato lo Zimbabwe per trasferirsi negli Stati Uniti, dove insegna black studies e che alterna la scrittura di testi poetici a quella di saggi di critica letteraria. O infine del congolese Emmanuel Dongala, scrittore e scienziato (è docente di chimica al Simon’s Rock College in Massachusetts) che nella sua scrittura, dai racconti ormai «classici» di Jazz e vino di palma (Edizioni Lavoro) fino al romanzo Johnny Mad Dog (Epoché), rivendica sia l’importanza delle narrazioni orali dell’infanzia sia quella del metodo appreso nei suoi studi scientifici.
Difficile insomma contrapporre – al di là della suggestione dell’immagine – il «deserto» dell’oralità al «dopo» della scrittura, tanto i due elementi sono invece, nella letteratura africana, fertilmente intrecciati. Non a caso James Baldwin, nero e omosessuale, uno che di «etichette» si intendeva fin troppo bene, invitava a rifiutare le categorie troppo rigide con una metafora che proprio al deserto fa riferimento: «L’identità potrebbe essere paragonata agli indumenti con cui copriamo la nudità dell’io. Ma in questo caso è meglio che questi indumenti siamo ampi, un po’ come le vesti che si usano nel deserto, perché attraverso di essi la nudità si possa sempre avvertire».