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Molti, anche esponenti politici, sostengono che una donna non dovrebbe essere discriminata in quanto madre, come sarebbe accaduto alla signora licenziata da Ikea qualche giorno fa.
È vero, ma dicendo questo non si coglie del tutto la posta in gioco.
Da quarant’anni il diritto antidiscriminatorio, dettato dalla Ue e interpretato dalla Corte di Giustizia, ripete che come genitori donne e uomini sono eguali.
Giustissima idea, che però è servita a dire che sono discriminatorie le norme nazionali che assicurano alle donne tutele ulteriori rispetto a quelle strettamente legate al fatto biologico della gravidanza e del parto.
Presupponendo un’inclinazione femminile al lavoro di cura, tali norme discriminano le donne in quanto ne assumono un’immagine stereotipata.
Perciò è stato considerato discriminatorio, nel 2008, che le pubbliche dipendenti italiane potessero andare in pensione prima degli uomini; così come, nel 1988, furono condannate norme francesi che anticipavano l’età pensionabile delle donne in relazione al numero di figli.
Per il diritto europeo, che condiziona quello italiano, nessuna donna può dire «sono stata discriminata in quanto madre» se un uomo nella sua stessa situazione sarebbe stato trattato allo stesso modo.
Se la condizione di genitore è considerata dal datore egualmente irrilevante nei confronti sia dei dipendenti, sia delle dipendenti, non c’è discriminazione. Una eguale irrilevanza delle condizioni di vita di chi lavora è l’ideale cui tende la tutela antidiscriminatoria.
Anni fa una signora inglese, Sharon Coleman, fu licenziata per le assenze cui la costringeva la disabilità del figlio. Vittima della discriminazione fu considerato il bambino, e la madre venne in rilievo quale persona a lui «associata».
In questo quadro, una donna licenziata perché si occupa di un figlio disabile (salvi tutti i possibili distinguo che nel caso Ikea andranno fatti, tenendo conto del contratto di lavoro, della legge 104 e di altre norme nazionali) può trovare giustizia solo se dimostra che il datore, essendo un individuo cattivo che odia i disabili, intendeva discriminare il bambino.
Nel caso Coleman fu provato che il datore aveva indirizzato al piccolo disabile parole antipatiche. Ma nel caso Ikea? Potrebbe essere una prova impossibile, e non resterebbe che sperare che l’azienda, per benignità o temendo un costo d’immagine, ci ripensi.
Elogiatissimo per la sua lotta progressista contro gli stereotipi di genere, il diritto antidiscriminatorio è servito alla Ue a smantellare le legislazioni protettive del lavoro, e a ridurre il campo delle ragioni che un lavoratore può opporre al datore.
Dopo che il divieto di lavoro notturno per le donne fu abolito perché discriminatorio. le condizioni del lavoro notturno sono diventate più gravose per tutti i lavoratori.
Il fatto è che le norme protettive dettate per le donne tra Otto e Novecento racchiudevano un principio che non riguarda solo le donne: la vita umana, e la società, cioè le relazioni che ci tengono uniti gli uni agli altri e ci danno autonomia e libertà, hanno valore e per questo devono essere tutelate davanti alla logica del profitto che tende a espropriarle.
Quelle tutele erano il cuore dello stato sociale, che voleva dire difesa della società davanti all’invadenza del mercato.
Le donne sono state il primo lavoratore «protetto»: denunciando come discriminatorie le norme protettive per le donne, la Ue ha demolito la legittimazione di ogni tutela nel lavoro e ha costruito il suo modello ideale: la persona che vive per garantire il soddisfacimento delle esigenze del mercato.
Non parliamo, dunque, di «diritti delle donne».
Non stiamo a un gioco nel quale è già pronta la risposta: quei diritti sono stereotipi che danneggiano le donne, oppure sono incomprensibili privilegi (non lo erano le tutele contro il licenziamento illegittimo abolite nel 2012?) che il mondo d’oggi non può più permettersi.
Cominciamo a vedere nei diritti delle donne, in ciò che accade alle donne, qualcosa che riguarda tutti, come sempre è, ma come spesso è difficile percepire.
Non si tratta di garantire alle mamme il recinto in cui accudire i bambini. Si tratta di tornare a chiarire che non deve essere la produzione a dominare ogni singola esistenza e dettarne le priorità.
(il manifesto 30/11/17)