3 Marzo 2004
Nigrizia

Intervista a Odile Sankara

Anna Ceravolo

Odile Sankara, attrice e insegnante di teatro, dal Burkina fa spesso la spola con la Francia, insieme all’associazione Talents de femmes, che ha fondato insieme a Ouédraogo. Odile è la sorella minore di Thomas Sankara, mito immortale dei burkinabè che, giunto al potere nell”83, in quattro anni di governo illuminato rivoltò il paese con una ventata di straordinarie innovazioni; a partire dal nome (“Alto Volta”, fu mutato in Burkina Faso, il “Paese degli uomini integri”). Sankara smantellò il lussuosissimo parco auto governativo e lui e i suoi presero a girare in 2 cavalli, obbligò gli uomini al potere a dedicare del tempo alla coltivazione per comprendere la fatica della gente comune, puntò alla formazione dei giovani e all’emancipazione della donna, applicò misure di politica economica destinate a ridurre la dipendenza dall’esterno. Nel 1987 fu assassinato e il processo di modernizzazione del Paese subì una battuta d’arresto definitiva. In una nazione che è agli ultimissimi posti per pil e grado di industrializzazione, Odile Sankara crede oggi nella forza della cultura come strumento per rifarsi sulla storia. Attraverso Talents de femmes la cultura e l’arte diventano leve sociali per dare voce, innanzitutto, a chi nella società burkinabè non ce l’ha affatto: le giovani donne. “Nella comunità tradizionale la parola è consacrata ai saggi, agli anziani, al capo del villaggio mentre i giovani, le donne non ne hanno diritto. Il teatro diventa dunque il luogo dove ci si riappropria della parola e dove la donna può rivestire un ruolo impegnato. A questo proposito abbiamo in corso un progetto sulla scrittura, che per le ragazze rappresenta uno strumento di libertà d’espressione. Coinvolge cinque scuole superiori dove le studentesse sono invitate a scrivere su tema libero. I loro testi, poi, verranno selezionati per una pubblicazione e per realizzare delle scene teatrali”.

 

Qual è la genesi di Talents de femmes?
Nel ’96 abbiamo messo in scena il nostro primo spettacolo, Les Co-epouses dell’algerina Fatima Gallaire, testo di un certo impatto sul pubblico, visto che parla della coalizione delle mogli che sottomettono il marito poligamo. Mentre nel ’97 si è tenuta la prima edizione di Voix de femmes, festival non solo di teatro, ma anche di musica, danza, canto tradizionali, ed esposizione di manufatti artigianali. È una manifestazione senza vedette; noi vogliamo mostrare il lavoro delle donne dei villaggi. All’inizio le ragazze che aderivano all’associazione erano unicamente persone di teatro, perché io sono un’attrice, e quindi Talents de femmes è nata con questa impronta. A mano a mano, però, si sono avvicinate insegnanti, avvocati, giornaliste, anche una donna ministro.
Come reagisce la famiglia delle giovani donne che partecipano all’associazione?
In generale non ci sono problemi. Piuttosto è il pubblico esterno che snobba un po’ le donne intellettuali. In Africa non si può andare in fretta. La gente ci segue, ci ama, ma ancora non riesce a condividere la nostra riflessione.


In Burkina esistono dei generi teatrali definiti?
Ci sono gruppi che lasciano spazio al coinvolgimento del pubblico che sale in scena e partecipa attivamente. Cercano così di creare una sensibilizzazione su problemi come l’escissione, i matrimoni forzati, l’uguaglianza della preparazione scolastica per ragazzi e ragazze, l’uso dei contraccettivi, la limitazione delle nascite: questo teatro è formidabile. Altre compagnie, invece, presentano in scena il folclore tradizionale: un genere molto gradito al pubblico. Altri gruppi, ancora, non si danno una connotazione particolare, ma scelgono temi che riguardino direttamente l’Africa d’oggi, per esempio la disoccupazione dei giovani, la corruzione, la perdita dei valori tradizionali, l’abbandono della vita in comunità; insomma quanto faceva la forza dell’Africa e che ora sta scomparendo. A teatro certi argomenti vengono accettati perché il pubblico li relega, appunto, al teatro, convinto che con la vita reale non abbiano niente a che fare. È vero anche che nei villaggi, talvolta, le compagnie hanno avuto delle difficoltà, perché la gente non era d’accordo con gli attori, e si sono verificate delle accese opposizioni. Ma il teatro, anche in questi casi, ha svolto il suo ruolo di “luogo di dibattito pubblico”. Dal punto di vista delle sue manifestazioni, invece, il teatro trasmette la stessa vitalità che si respira nei villaggi, come se si trattasse di un matrimonio, di una veglia. Non è come in Occidente dove si presta grande attenzione al rigore, al rispetto del testo, alla dizione; per noi è prioritaria la vita, all’interno delle nostre creazioni. Il divertimento sale ma, a un tratto, il pubblico non ride più: è in quel momento che inizia a riflettere.


Hai vissuto a lungo in Francia e vi torni spesso, vivi dei conflitti tra la cultura occidentale e quella africana?
Sì. Qui ho paura di perdere il senso della vita comunitaria, temo di non poter condividere i miei problemi con altri. D’altro canto ciò che più apprezzo della società occidentale è il poter esprimere liberamente le proprie idee, poter dire di no. Io non posso assolutamente dire “no” ai miei genitori, per nessuna ragione al mondo, tutt’al più posso dire “non sono d’accordo”, ma mi fermo lì. In Occidente ho imparato ad avere un mio pensiero e ad esprimerlo pubblicamente. Voi godete di un’enorme libertà, ed è normale entrare in contraddizione con altri, ma spesso è una contraddizione costruttiva, da noi quando dici “no”, diventi un nemico.
Credi con il tuo teatro di continuare il progetto di tuo fratello?
Io non sono una persona impegnata politicamente. Credo fermamente nelle sue idee, nella sua lotta, e so di portare un nome molto pesante. Con il mio nome, Sankara, non potrei mai, per esempio, cedere alla corruzione, ma più semplicemente non posso permettermi di non prestare attenzione al mio comportamento sociale. Devo e voglio difendere questo nome e i valori che difendeva mio fratello.

 

Cosa pensi della poligamia?
Non riesco a condannarla totalmente. La condanno nella società moderna dove le donne entrano in aspro conflitto tra loro, e non è raro che cerchino di eliminarsi per mezzo di pozioni tradizionali; i figli, poi, sono divisi all’interno della famiglia, come se non fossero fratelli e sorelle. No, nella società moderna la poligamia non è più accettabile. Al contrario, nella società tradizionale la poligamia è pressoché obbligatoria. Una famiglia dove l’uomo ha qualche moglie e numerosi figli, è una famiglia ricca di forze per coltivare i campi, e lì non si soffre la fame. Le donne vanno d’accordo; non c’è gelosia perché nei villaggi l’uomo non preferisce l’una all’altra, tutti vanno a lavorare lo stesso campo e mangiano lo stesso miglio che hanno coltivato insieme. Inoltre, nei villaggi, il lavoro della donna è molto pesante: taglia gli alberi, attinge l’acqua, pesta il miglio per ottenere la farina, coltiva i campi… magari con un bambino sulla schiena e un altro in arrivo. Per cui è la prima moglie, che ha dato un figlio all’anno, a dire a suo marito “prendi un’altra moglie, io sono stanca”. E la seconda moglie è tenuta a portarle rispetto e a trattarla come una madre; effettivamente non la chiamerà mai con il suo nome, ma “mamma”.

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