di Luisa Cavaliere
Mi ha colpito molto l’intervista rilasciata dall’onorevole Michela Marzano sulla sua esperienza di parlamentare appena conclusa. Un vero e proprio atto di accusa contro l’incompetenza, l’assenza di dibattito democratico e di confronto, le decisioni prese con procedure approssimative e frettolose. Facilissimo sarebbe obiettare all’onorevole Marzano che chi si avventura su un territorio minato com’è quello delle istituzioni deve prevedere di imbattersi in qualche difficoltà e in un po’ di solitudine. Ma alla prima facile obiezione deve necessariamente seguire una riflessione sulle questioni poste che alludono alla presenza delle donne in Parlamento, al loro ruolo, al sistema di selezione che le fa scegliere, ai criteri che si usano per valorizzarne i talenti, alle relazioni che tessono fra di loro. In Campania si è appena concluso il complicatissimo round della formazione delle liste e in esso possono essere letti tutti i mali della politica “istituzionale”. Dall’ambizione smodata dei mediocri, alla selezione in base all’accondiscendenza, al cinismo che evoca gli interessi della povera gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese come segno della propria sensibilità. Nelle liste le donne ci sono in osservanza della norma antidiscriminatoria che prevede che un sesso non possa superare il 60 per cento delle presenze né scendere al di sotto del 40 per cento. Una norma di tutela (paradossalmente vale anche per gli uomini, qualora le donne arrivassero al 60 per cento di presenza!) che sostiene e rende possibile il realizzarsi di un desiderio di “protagonismo” femminile legittimo in una società che si dica democratica. Genericamente democratica. Preoccupata di sanare ingiustizie e discriminazioni. Ma quella norma allude a tutta la cultura paritaria e antidiscriminatoria che meriterebbe una riflessione per la storia che ha avuto nella nostra regione e per le insidie che si annidano nelle sue pieghe a tratti anche seducenti.
Se la discriminazione con tutti i suoi nefasti corollari trova la sua ragione d’essere nella repressione della differenza di genere non è ricorrendo alla strategia paritaria che essa può essere sanata. Non è rimanendo prigioniere del sistema che genera la disuguaglianza che si può agire per il cambiamento radicale. La discriminazione parte dall’assunto di un universale maschile al quale tendere e dalla considerazione che le donne sono una massa indistinta da rappresentare con l’oggettività di un numero, di una percentuale.
La consapevolezza di questo inganno paritario dovrebbe generare da parte delle donne un’accettazione diffidente. Una padronanza del contesto nel quale desiderano misurarsi tale da imporre elementi di cambiamento, pratiche dissonanti, significative interruzioni delle abitudini.
Solo questa salutare diffidenza potrebbe, se sostenuta anche da alleanze “spurie” non prigioniere degli schieramenti, portare a un mutamento degli stessi criteri di selezione del ceto politico femminile che ora premia chi accetta e si fa vestale di una linea e ignora (come potrebbe non farlo) le dissonanze.
Il legittimo timore di essere ridotte a comparse e l’amarezza dell’onorevole Marzano potrebbero essere evitati entrando con le armi della critica e con la forza di una solida alleanza fra donne, proprio nel cuore della discriminazione. Nel perché di un’esclusione che somiglia alla paura e che non è una causa secondaria della crisi profonda della politica.
(www.libreriadelledonne.it, 01 febbraio 2018)