Vita Cosentino e Federica Giardini
Per il convegno Quando è troppo, è troppo, donne e uomini che si interessano di scuola e di università si ritrovano a Roma, sabato 7 ottobre (15,00 – 19,00) e domenica 8 (9,00 – 13,00) 2006 facoltà di Architettura della Terza Università, aula Urbano VIII via Madonna dei Monti 40, MM linea B – fermata Cavour
Quanta voglia di autoriforma circola oggi! L’idea è nata nella politica delle donne – come proposta rivolta anche a degli uomini – agli inizi degli anni Novanta, in un movimento che è partito dall’università per estendersi poi nelle scuole. Forma politica nuova, che non somiglia a nessuna organizzazione esistente perché implica la soggettività e i suoi movimenti, ha conosciuto anche andamenti carsici, quando non momenti di vera eclissi, come è successo per un lungo periodo all’università. Una politica centrata sulla soggettività e sulle relazioni sa però accettare e mettere a frutto che la durata costante nel tempo non è garantita, perché non è oggettivata, e si fa piuttosto cogliendo di volta in volta le occasioni. Questo movimento politico radicale trova oggi nuovo terreno nei dibattiti che, prima e dopo le elezioni di quest’anno, hanno interessato la scuola e l’università. Oggi infatti l’idea e la parola autoriforma – e la correlata constatazione dell’impraticabilità di riforme dall’alto – è oggetto di riprese e di rilanci da più parti.
Abbiamo in mente, per esempio, come le mobilitazioni dell’autunno scorso di studenti e docenti precari nelle università, abbiano riscoperto questa parola contro le politiche della ministra Moratti e l’abbiano fatta circolare nei movimenti attraverso il “Manifesto per l’autoriforma” (v. sito autoriformagentile.too.it). Lì si diceva che “il nostro tempo è qui e comincia adesso”, che non è nelle mani di nessuno se non di chi vive l’università e che da lì si può ripartire politicamente. Sull’altro versante, fanno da esempio le intenzioni di Fabio Mussi, attuale ministro dell’università, che proclama: “lo prometto: mai più riformismo dall’alto” (audizione alla VII Comissione della Camera dei deputati, 4 luglio 2006) e parla di “disarmo normativo”.
L’idea e le pratiche dell’autoriforma per la scuola e l’università, che partono dall’esperienza diretta e concreta dei luoghi e delle relazioni, sembra essersi diffusa e aver trovato interlocutori imprevisti. E’ sempre stato così per la politica delle donne, ma oggi lo è a maggior ragione, data la crisi delle forme e delle istituzioni della politica tradizionale, come oramai sanno anche i loro stessi rappresentanti. Sembra annunciarsi un appuntamento tra l’intelligenza del presente e quelle invenzioni. Siamo davvero in una situazione come quella che descrive Alain Touraine, quando dice che la politica delle donne è capace “di dare per scopo all’azione collettiva la proclamazione della libertà di soggetti creatori e liberatori di se stessi”? e che dunque le donne sono “le attrici sociali più importanti” a cui fare riferimento per una politica all’altezza dei cambiamenti dei nostri tempi? (v. introduzione a Le monde des femmes, Fayard, Parigi 2006)
La domanda è aperta, le risposte sono nelle nostre mani. A questo appuntamento, noi che scriviamo intendiamo esserci. E così siamo andate a conoscere gli autori del manifesto per l’autoriforma dell’università, tessendo relazioni con alcuni del “movimento precari”, con docenti incontrati durante le mobilitazioni degli ultimi anni nelle scuole superiori e soprattutto nelle scuole elementari, e rimettendo in gioco altre relazioni già consolidate nell’Autoriforma gentile, in Retescuole e nella Società delle Letterate. Abbiamo discusso con loro della situazione in rapido mutamento. Una constatazione comune riguarda il bisogno di togliere tutti gli ingombri che imperversano: troppe regole, troppo insensate e cambiate troppo in fretta, troppo progettificio e troppo “mercato”, troppa ubbidienza e troppa indifferenza. Attraverso questi incontri preparatori, abbiamo organizzato il convegno per l’Autoriforma della scuola e dell’università, “Quando è troppo, è troppo”. Vogliamo prendere sul serio le parole di Mussi – “mai più “riformismo dall’alto”” -, ma ci chiediamo: è disponibile il ministro a dare corpo a questa dichiarazione con un vero e proprio cambiamento di cultura? Perché quell’intenzione non va da nessuna parte se non si abbandona l’idea che il cambiamento e il senso della vita in comune si fa solo attraverso regole e procedure. E questa è un’idea che ha la portata di una cultura intera. Purtroppo, c’è un grande attaccamento a questa idea anche fra noi, non in teoria ma in pratica, perché distaccarsi dall’ordine stabilito domanda coraggio e inventiva.
Ci vogliamo trovare a Roma per innestarci nella voglia di cambiamento, pescando da ciò che di meglio abbiamo pensato e sperimentato in questi anni. Cominciamo con il raccontare gli effetti che l’ipertrofismo legislativo ha prodotto nelle scuole e nelle università volendo regolamentare la vita fin nei minimi dettagli. Le leggi sono effetti di cultura ma producono cultura a loro volta, e così – come diciamo nell’invito – abbiamo visto diffondersi veri e propri virus letali come la progettite e la produttivite. Il loro linguaggio (obiettivi, debiti, crediti…) e le loro logiche (prevedibilità ossessiva di tutto: tempi, soldi, canali, competenze) hanno portato a comportamenti astratti e ossequiosi della pura apparenza. Raccontarci questi effetti ci mette sulla strada giusta – ci porta a trovare parole per quello che viviamo e patiamo, spesso con una vivacità di dettagli che portano già in loro stessi il germe della trasformazione – per distinguere il necessario, il superfluo e l’abbondanza che vogliamo.
Il cambiamento di cultura starebbe nel provare a percorrere insieme la strada del togliere, del meno, che poggia già su alcuni punti precisi: non adagiarsi su un’idea indotta di ricchezza come produttività e consumo, non ritenere che la salvezza dei nostri luoghi sia riducibile a un aumento dei finanziamenti pubblici; ma piuttosto sgombrare il campo per ricreare spazi di vita pubblica che mettano al centro le relazioni e le esigenze che manifestano di volta di volta. Pretendiamo che ci venga data fiducia. Noi donne e uomini che la scuola e l’università sappiamo cos’è, sappiamo come si fa. E’ vero, parola d’ordine delle politiche di governo è stata l'”autonomia”, ma troppo spesso questa è stata declinata come una pagina da riempire immediatamente di altri statuti, regolamenti e via dicendo, con quegli effetti di burocrazia che ben conosciamo. Più che questa autonomia, il campo lasciato sgombro dalle politiche dall’alto diventa lo spazio in cui, attraverso i racconti delle nostre esperienze, prendono piede le pratiche già in corso e che in questi anni hanno mantenuto vivo il senso dell’insegnare, dell’imparare, del fare ricerca. Tutte quelle pratiche cioè che non hanno obbedito alla frammentazione della didattica, alla velocizzazione produttivistica dei percorsi – con l’anomia seriale o addirittura il disprezzo verso gli studenti e le studentesse – a favore di tempi più lunghi, di rapporti più curati e significativi, ad esempio. Oppure quelle pratiche che non hanno obbedito alla strana concezione igienico-sanitaria delle normative europee – che ad esempio vieta di portate a scuola torte fatte in casa dalle mamme – per mantenere la scoperta creativa della vita e del sapere da parte di bambini e bambine attraverso sapori, colori, suoni e odori.
Se appuntamento dev’essere che appuntamento sia. Che la fragilità della politica tradizionale, anziché portare a irrigidimenti difensivi e preventivi o a equivoci libertari, sia occasione di un nuovo orizzonte di civiltà, adesso, qui e ora, faccia a faccia, nella trepidazione della scoperta di qualcosa e qualcuno. Come succede nei veri appuntamenti.