La fotografia come supporto per immaginarsi: l’autoritratto delle donne negli anni Settanta
Femminismo, identità, esplorazione del sé. Questi sono i temi centrali che si intrecciano nelle opere di molte artiste italiane attive negli Anni Settanta. Raffaella Perna ci racconta il loro utilizzo di un genere particolare: quello dell’autoritratto fotografico
“Per le donne il fare è una dimensione problematica: realizzare o no un progetto, un’idea, vuol dire passare radicalmente dal silenzio alla parola, e infiniti sono i motivi di autocensura, di castrazione […]. Se parlo di immagine/oggetto in quanto foto di donna, allora il nesso è con la rappresentazione mentale di me stessa, la rappresentazione dell’altra, il problema in generale di come si rapportano le donne alla loro immagine. Chi dà loro un’immagine? Storicamente lo sguardo maschile”(1). Così scriveva Paola Mattioli nel 1978 nel volume collettivo Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, pubblicato in collaborazione con le compagne del cosiddetto Gruppo del mercoledì per l’editore Gabriele Mazzotta: dalle parole di Mattioli emerge con chiarezza la consapevolezza, condivisa da molte altre fotografe e artiste della sua generazione, dell’urgenza di sperimentare nuove forme di rappresentazione del femminile, al di fuori dei canoni maschili dominanti.
Grazie all’impulso del pensiero femminista, negli anni Settanta diverse autrici in Italia scelgono l’autoritratto fotografico come terreno elettivo, da un lato, per demistificare le immagini stereotipate proposte dall’informazione e dai mass-media, dall’altro, per riconquistare il potere di rappresentarsi in qualità di soggetti attivi. “Fotografare sé stessi”, come ha sottolineato Susan Butler, “è inevitabilmente un’impresa schizoide” (2), durante la quale si fa esperienza dello scarto tra la percezione interna del sé e il sé esterno percepito dagli altri. Lo strumento fotografico riproduce lo sguardo altrui che si posa su di noi, con un inevitabile effetto di controllo: eppure, quando ci si pone simultaneamente davanti e dietro l’obiettivo, il meccanismo della visione s’inverte e la fotografia diviene un mezzo di autoproiezione, attraverso il quale scegliere attivamente come rappresentarsi agli occhi dell’altro. Per la donna, tradizionalmente oggetto dello sguardo e della rappresentazione altrui, l’autoritratto fotografico costituisce dunque una pratica privilegiata per sperimentare la propria soggettività.
LA MACCHINA FOTOGRAFICA COME STRUMENTO DI IMMAGINAZIONE
La stessa Mattioli, in una sequenza di sei immagini pubblicata nel libro citato poc’anzi, si ritrae nell’atto di fotografare, mentre il suo volto è coperto dall’apparecchio fotografico. Benché il richiamo alla Verifica n. 2 L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander di Ugo Mulas (con cui Mattioli si è formata) sia evidente, la sequenza è frutto di un processo diverso: partendo dal suo ritratto, Mattioli realizza infatti una sagoma fotografica, che appende al soffitto con un filo sottile, come un mobile di Calder, facendola oscillare vorticosamente nello spazio; in un secondo momento, la fotografa realizza una sequenza di scatti in cui riprende la sagoma in movimento, al fine di rappresentare, sulla scorta della lettura di Merleau-Ponty, la dimensione mutevole della percezione e il carattere soggettivo, quindi non neutrale, dello sguardo. Mattioli esplora la propria immagine, colta nel momento stesso in cui fotografa, nella convinzione che “la memoria meccanica della fotografia, molto spesso occasione per non vivere e per non vedere, può diventare in mano alle donne supporto per vedere e per immaginarsi” (3)
Allo stesso desiderio di “immaginarsi” si lega l’esigenza espressa da molte autrici attive in questi anni di rileggere il passato delle donne attraverso un processo di recupero di storie marginali o rimosse, nelle quali potersi rispecchiare. Nell’identificarsi con l’altra, la fotografia è uno strumento essenziale, che consente di convocare il passato e di porlo in relazione dialettica con il presente e di avviare uno scavo nella memoria, alla ricerca delle proprie origini. Si fonda sulla giustapposizione di immagini appartenenti a storie e tempi diversi, ad esempio, la serie Le streghe realizzata intorno alla metà del decennio da Libera Mazzoleni, dove l’artista interviene su alcune antiche incisioni dedicate alla caccia alle streghe, tratte in gran parte dal Compendium Maleficarum di Francesco Maria Guazzo, inserendovi il suo ritratto fotografico. Nell’immedesimarsi con le streghe Mazzoleni riconosce le sue radici nella storia delle migliaia di donne torturate e uccise tra il XV e il XVII secolo nell’occidente cristiano, in una persecuzione mirata a controllarne la vita, la sessualità, il corpo e il sapere, funzionale a confinarle al lavoro domestico non pagato, subordinandole all’uomo e alla famiglia (4); una storia, quella della streghe, che proprio negli anni Settanta è oggetto di un’intensa riscoperta da parte del femminismo. “Ricordo le ore passate nella biblioteca Sormani”, racconta l’artista, “leggendo e sfogliando testi diversi dove la riproduzione di litografie del Cinquecento intrecciava la mia emozione […]. Libera di immaginare, acquisivo allora la consapevolezza che anch’io stavo attraversando e vivendo quella demonizzazione del femminile insieme a chi è stata inghiottita dalla violenza di una storia che cancellava esistenze non assimilabili” (5).
ALLA RICERCA DELLA PROPRIA IDENTITÁ
Per Mazzoleni, come per Mattioli, l’autoritratto fotografico diventa quindi una pratica volta a riconquistare la facoltà e il piacere della narrazione: attraverso uno sguardo che si pone contemporaneamente al di qua e al di là dell’obiettivo, la donna smette di essere l’oggetto della visione altrui e si riappropria del corpo, della sessualità e della sua rappresentazione simbolica, per sconfessare le immagini convenzionali del femminile ed esprimersi con un linguaggio più autentico.
Da questa prospettiva va letta, ad esempio, la serie Scritture viventi di Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli, realizzata nel 1976 con il supporto tecnico dell’amica e fotografa Verita Monselles, dove l’artista si fa ritrarre mentre assume con il proprio corpo nudo la forma delle lettere alfabetiche. Le Scritture viventi possono essere interpretate come il tentativo di porre in luce l’ambiguità del processo di costruzione della femminilità: il corpo in carne e ossa della donna è ritratto nel momento in cui si adegua a forme linguistiche codificate, che ne plasmano l’identità. Questo nuovo alfabeto corporeo è concepito per riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio, in cui la donna non si riconosce, attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto. “Non vogliamo più sentirci entità astratte”, scrive all’epoca Binga, “ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane” (6).
Nel processo di riscoperta della propria immagine e della propria identità, le donne trovano quindi nell’autoritratto fotografico un terreno ideale, che dà loro modo di contrastare la secolare difficoltà femminile di esprimersi liberamente. A partire da questa consapevolezza, negli anni Settanta, molte fotografe e artiste italiane scelgono l’autoritratto non soltanto per raccontare la loro esperienza individuale, ma anche, lo si è visto, per fare emergere una storia, quella della donna, fatta di silenzi forzati, non detti, parole trattenute e ideali di bellezza a cui non può e non vuole conformarsi, secondo una concezione che lega a filo doppio il vissuto personale a quello collettivo.
– Raffaella Perna