di Pinuccia Corrias
Il 28 gennaio 2018, presso la Libreria delle donne di Milano si è tenuto un incontro fra donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, al Graal-Italia, alla Sororità di Mantova, a Thea-Teologia al femminile e la Comunità di storia vivente.
Intervento di Pinuccia Corrias
Solo la lettura de L’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e le sue conseguenze sulla relazione con mia madre e, dunque, col mondo delle donne, credo che abbia avuto su di me conseguenze così significative come la scoperta della pratica di “storia vivente”, acquisita in particolare grazie a Marirì Martinengo.
Essa ha portato un altro pezzo di libertà nella mia vita attraverso la comprensione del libro di Mira Furlani, Le donne e il prete, in un percorso che descrivo in un testo di cui ho letto un breve pezzo all’incontro del 28 gennaio in Libreria a Milano, e che qui ripropongo per intero dopo averlo condiviso con Mira.
Mi presento. Anche se non faccio parte delle Comunità di Base, ho fatto un lungo percorso con Doranna Lupi e Carla Galetto nel gruppo Ricerca teologica e pensiero della differenza, che ha alimentato molto del pensiero e delle pratiche femministe di Pinerolo e valli.
Inoltre conosco Mira, sono stata sua ospite tanti anni fa e c’è stato uno scambio reciproco sulle gioie e gli scacchi della nostra vita. Anche per questo il suo libro, Le donne e il prete, mi ha interessata tantissimo; l’ho letto con grande passione e con altrettanta passione con Doranna e le altre ci siamo confrontate, senza trovare soluzione alla nostra conflittuale posizione; pur non negando il positivo che Doranna e Carla individuano nella loro bella prefazione, io mi sentivo bloccata da qualche cosa che mi sembrava mancasse e da cui veniva un’ombra anche a ciò che veniva detto. Da qui il rifiuto e quindi il silenzio tormentato.
Posso dire che per iniziare a rompere questo muro, mi sono servite all’inizio le parole di Luisa Muraro: «Mi parve una storia di “donne che non vanno d’accordo” e ciò mi diede fastidio» (Viottoli, n. 2/2017, p. 57).
Certo, anche in me avrei potuto riconoscere “pregiudizi misogini”, come chiamava i suoi Luisa, ma la cosa non mi placava, perché mi sembravano altrettanto misogini quelli usati per stigmatizzare la donna o le donne che in questa questione stavano dall’altra parte, e dunque i miei dubbi sulla bontà della scrittura di Mira, soprattutto in alcuni punti, continuavano a bloccarmi.
La lettura ripetuta di tutti i testi che Carla e Doranna hanno raccolto nell’ultimo numero di Viottoli – grazie! – in particolare di quelli le cui autrici hanno visto e hanno tentato di svolgere il nodo (che io sapevo essere anche il grumo doloroso della mia vita), insieme al mio desiderio di trovare una via di uscita valida anche per me stessa, mi hanno portata a due scoperte che proverò ad esplicitare.
La prima è il consiglio di Marirì Martinengo, madre insieme ad altre della Libreria delle donne di quella pratica che hanno chiamata “storia vivente” e di cui avevo letto i testi con interesse, ma che erano rimasti per me pura teoria senza un aggancio concreto alla realtà.
«La radice della nostra pratica è l’autocoscienza degli anni settanta, che aveva un suo progetto politico; la storia vivente ne ha un altro; il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia. L’esposizione, prima orale poi scritta, di quanto viene fuori, va contestualizzata (questo è il punto chiave!) e legata saldamente con i fatti di cui dicevo sopra. Occorre rifuggire dallo psicologizzare e mantenersi ancorate/i al terreno della politica» (sito della Libreria delle donne, 6 aprile 2017).
Aggiunge, poi, un’affermazione che lei stessa definisce “essenziale”: «Estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi sia libertà e autorità femminili. Proponiamo una storia a partire da sé – valida per donne e uomini – da un sé profondo che la filosofa María Zambrano e la storica María Milagros Rivera Garretas chiamano le viscere. (Forse l’universale come mediazione)» (idem).
Far parlare le viscere, dunque.
E c’è un punto in cui le viscere di Mira parlano e ciò che dicono non è quanto si sa e tutti raccontano sulla rivoluzione dell’Isolotto. Quella rivoluzione che tutti sanno e riconoscono, Mira l’ha vissuta da protagonista alla pari dei maschi, donna prometeica, forte e vincente. L’unica donna a subire il processo con gli altri uomini e come loro assolta.
Le viscere di Mira in questo libro gridano invece un altro nodo, rimasto sempre taciuto, che è quello riguardante il progetto delle “case-famiglie” con tutto ciò che vi è nato dentro e intorno e che ha riguardato la sua vita.
E non è affatto reticente, come suggerisce Luisa Muraro.
Dice tutto ciò e solo ciò che le viscere hanno sempre tenuto dentro nel loro groviglio doloroso e che l’ha sempre ferita e che ha sempre taciuto e che finalmente ha avuto la forza, grazie all’amore di altre donne, di tirar fuori.
Ecco, le viscere hanno parlato, ma ora, come dice Marirì Martinengo, il nodo va contestualizzato.
E il contesto, dico io, non è l’Isolotto, luogo in cui Mira ne ha fatto dolorosa e incompresa esperienza; il nodo non riguarda le donne e il “prete”, perché qui l’essere prete, secondo me che ho fatto un’esperienza simile con un uomo che prete non era, non c’entra: c’entra l’essere uomo – e perfino dei migliori – di quel tempo.
Qui il nodo è: le donne e l’uomo negli anni “rivoluzionari” del ’68 e dintorni.
Il contesto qui è il simbolico patriarcale nel rapporto uomo-donna: il simbolico, non il sistema! Che veniva allora contestato dai figli maschi coadiuvati dalle figlie femmine. Simbolico che negli anni ’60 e in buona parte degli anni ’70 funzionava uguale e quasi intatto in tutte le realtà miste: famiglia, scuola, partiti di sinistra ed extra-parlamentari, chiesa tradizionale e chiesa del dissenso; con una differenza, però, rispetto agli anni precedenti. Differenza di cui Mira era portatrice, come molte altre donne che in quel tempo si erano affacciate autonomamente alla vita sociale, sostenute da madri silenziose ma incoraggianti; una differenza di cui, tuttavia, eravamo in buona parte inconsapevoli.
Non per molto tempo ancora, però.
Era il tempo della discussione tra “liberazione” ed “emancipazione”, allora importantissima.
La differenza di cui parlo viene messa bene in luce da Alessandra De Perini, in un suo intervento del 22 settembre a Padova, commentando una foto.
«C’è una bellissima foto che per me ha un significato simbolico: mostra Mira che insieme a don Mazzi, ambedue giovani stanno salendo sull’Adamello. Lei è più avanti di lui, è più in alto e sembra rivolta verso di lui come per incoraggiarlo a salire. Nel momento in cui fu scattata la foto (un manifestato lo chiama il biopsicologo Badard, cioè l’espressione evidente di una realtà simbolica non esplicitata) lei, a livello profondo, è già collegata a una storia più grande, che scorre lenta, la trascende e narra di un’umanità femminile che lotta per affermare il proprio desiderio di verità, di esistenza libera, in fedeltà a sé e all’amore alla madre. Su di lui, invece, incombe una storia antichissima di potere maschile materiale e spirituale che lo appesantisce» (Viottoli, p. 56).
Eccolo il contesto che la De Perini (che non a caso è una storica) ha lucidamente individuato e che ora, nel 2018, possiamo dire, perché quasi 50 anni di femminismo ci hanno dato le parole per dirlo.
Quasi 50 anni. Perché il ’68 fu un tempo straordinario (vedi Alessandra Bocchetti, Cosa vuole una donna?) in cui noi donne condividemmo con gli uomini (e ciascuna con il proprio compagno di strada) tutto: privato e pubblico, corpi anime e spirito.
Capire che cosa è successo allora non era facile.
Ora, però, lo sappiamo.
Noi eravamo più avanti.
E sempre più avanti siamo andate; e ora, di ciò che è stato, sappiamo fare memoria efficace, storia vivente, mentre i maschi ricordano battaglie e vittorie, quasi sempre legislative! E così anche le donne che dai maschi – i migliori! – hanno mutuato il linguaggio e il simbolico.
Quello di cui parla Mira non è un nodo solo della sua storia personale, e neanche solo dell’Isolotto e della Chiesa patriarcale, ma delle donne e degli uomini che hanno attraversato quel tempo, soprattutto quelle che nel ’68 hanno mischiato la loro vita con i maschi e hanno fatto con loro progetti di vita.
E quel nodo finora non era mai stato elaborato politicamente dalle donne.
Non sbaglia, forse, Marcello Vigli quando afferma che le difficoltà nella relazione uomo-donna aumentano se l’uomo è un prete (cfr.Viottoli p. 42), ma sbaglia di certo quando non capisce che don Mazzi non si è scontrato con Mira in quanto prete. Questo può essere avvenuto in altre situazioni, ma è un’altra storia.
E per chiarire ancora di più, vorrei dire alcune cose a chi ha scritto a nome dell’Isolotto.
Che Mira ci abbia impiegato così tanto tempo a scrivere è la prova più grande del suo amore per don Mazzi e della sua volontà di non trascinarlo in una situazione di confronto pubblico ambigua oltre che difficile.
Voi scrivete: «Don Mazzi, che non è più con noi da cinque anni (e si sente tutto il dolore e la desolazione per questa perdita irreparabile, perché – lo sappiamo – i morti non tornano!) e non può quindi, anche se lo volesse, rispondere a Mira» … e noi capiamo “per difendersi”!
Ma, vedete, Mira non ha scritto questo libro per parlare di don Mazzi ma per dire di sé.
Non più, però, di quella Mira pubblica che aveva già dato e ricevuto la sua parte nel processo all’Isolotto.
Perché quella era una Mira dimezzata, mutilata. Era quella che, di fronte al valore dell’esperienza dell’Isolotto, ancora una volta, come sempre abbiamo fatto per tanto tempo noi donne, ha messo da parte se stessa e il suo grumo di dolore irrisolto, e a spada tratta ha difeso ciò che l’Isolotto rappresentava per chi l’aveva fatto.
Col tempo, però, con la maturazione del pensiero della differenza e il sostegno di donne che stavano dalla sua parte, Mira ha trovato, dentro il dolore e lo scacco, d’improvviso le parole perfette per dire quel suo dolore e quel suo scacco. Dirlo.
Bene per alcuni/e. Male per altri/e.
Rischiando di essere fraintesa, di essere letta secondo schemi e pregiudizi a volte perfino umilianti, consapevole di dire una parola tagliente, che poteva ferire, insicura talvolta perfino che ne valesse la pena.
Ha sentito che doveva dirlo. Per se stessa. Non per don Mazzi o per l’Isolotto o per le case-famiglia.
No. Per Giustizia. E la Giustizia è indissolubile dalla Verità. (Ed è maiuscola per chi la sente essenziale per il proprio essere e il suo rapporto con Dio. Come Giobbe).
E la verità è che dentro l’Isolotto, come dentro il ’68, come dentro le rivoluzioni maschili non c’era (e non c’è, credo) posto per una donna che volesse, e voglia, essere “soggetta” e non protagonista o oggetto.
Non ce n’era. E neanche gli uomini migliori, preti o no, potevano rispondere ai desideri di Mira, o delle donne come lei.
Perché per quei desideri non c’erano ancora né parole né pratiche e perché – l’abbiamo imparato dopo – affinché i desideri delle donne si attuino, occorre che una donna non sia sola, ma in relazione con un’altra donna. In più: per entrare in relazione con donne “così”, gli uomini dovrebbero essere “altri” uomini, che io non posso sapere come devono essere. Perché io non conosco uomini “altri”.
So, però, per esperienza diretta, che anche quando qualche donna ci tenta e qualche uomo ci prova, c’è spesso un’altra donna che – chissà perché – facilita a quest’uomo la strada per restare quello che è: un uomo che si crede Dio.
A differenza di María López Vigil, giornalista cubana che ritiene che la “mascolinizzazione” del divino «contribuisca […] alla disuguaglianza tra uomini e donne. E alle diverse espressioni di violenza degli uomini contro le donne» (Viottoli, p. 78), mi convince di più pensare che da una pratica di violenza sulle donne – non solo e non necessariamente fisica – nasce un simbolico onnipotente, per cui l’uomo si sente un dio e dunque si crea un dio maschile.
Ma qui non è questo il punto.
(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)