Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, 13 maggio 2018, Parlare bene delle donne
di Luisa Muraro
Le parole molto usate o usate male, si logorano, ma le parole a certe condizioni hanno il dono di rigenerarsi. Siamo qui per trovare queste condizioni, anzi con il sentimento di creare qui, ora, tra noi, queste condizioni capaci di rigenerare parole come quelle del titolo. Privilegerò il punto di vista della donna che sono io stessa, ma la questione si pone anche, diversamente, dal punto di vista maschile.
Concordo con Chiara Zamboni che parlare bene delle donne, prima di essere un impegno, domanda una disposizione interiore di apertura. Imporsi di farlo è perfino controproducente. In generale, le esistenze femminili sono afflitte da troppe imposizioni, esterne o interiorizzate o interne. A furia di essere gentili, ci sono donne che alla fine delle loro vite riescono solo a parlare di dolori, disgrazie e cattiverie. Io ho smesso gli sforzi per essere gentile, che mi facevano ammalare.
Non è facile parlare bene delle donne. Intendiamoci su una cosa di fondo: come ha detto Simone Weil, “il male è il contrario del bene, ma il bene non è il contrario di niente”. A proposito, vi segnalo l’uscita di Giancarlo Gaeta, Leggere Simone Weil (Quodlibet 2018), quanto di meglio per avvicinare l’opera e la figura di questa pensatrice, alla quale Gaeta ha dedicato tanta parte del suo impegno di studioso.
Non è facile, ma s’impara. S’impara non come un dover essere o come una pratica politica. S’impara così come impariamo a parlare una lingua straniera o a cucinare bene. Dopo tanto esercitarsi, un giorno scopri che lo sai fare. Diventa una competenza e un’accresciuta familiarità tra sé e il mondo. Detto in altro modo e meglio: questo parlare bene è essenzialmente una risposta; da imparare sono le domande che portano a quella risposta.
L’input iniziale più forte a me è venuto quando mi sono resa conto che, scrivendo, ci riesco meglio se parlo bene delle donne, indipendentemente da quello che io ho progettato di scrivere. Anche le critiche mi vengono meglio. Perché e per come, posso solo supporlo. Quando si scrive, si tratta di non mentire, di non imbrogliarsi, di immaginare senza illudersi, di lavorare nella ricerca della verità soggettiva, di ascoltare, di rendere dicibile il vero… insomma, di attingere a quel bene che non è il contrario di niente. Suggerisco di farsi una strategia, come in tutte le cose che riguardano il gioco del dentro-fuori. Quello che dico di me può valere anche per te, ma non sostituisce la tua strategia. Per esempio, ho smesso di fare sforzi di gentilezza perché mi facevano ammalare, ma mi serve una strategia nei rapporti con le altre, altrimenti mi ammalo di rimorso.
Ci sono dei momenti speciali in cui si fanno passi da gigante. Uno è stato, per me, la nascita della Libreria delle donne qui a Milano. Con la presenza di tutte quelle opere femminili, mi sono resa conto che, fino allora, in maniera inconsapevole e automatica, la firma femminile si associava in me a un senso d’inferiorità. Libera da questo complesso, sono diventata più intelligente. Il femminismo da solo non bastava, infatti poteva ridursi a offrirmi uno sfogo nel parlare male e contro gli uomini. Il groppo restava dentro.
Di che cosa sto parlando? Della disgrazia di essere nata donna, per rispondere con parole di Simone Weil. Faceva groppo un’eredità millenaria di soggezione e di misoginia.
Non capiremmo la strada che ha preso una parte del movimento femminista (il trans femminismo di cui ha fatto cenno Chiara Zamboni nel secondo esempio) senza considerare l’impulso a trascendere la differenza sessuale, sentita come causa della “disgrazia”. Questo impulso c’è perché fra l’essere corpo e l’essere parola c’è la necessità di una mediazione: se questa manca e sei una femmina, la tua diventa l’indecente differenza, come l’ha chiamata Alessandra Bocchetti. Il parlar bene delle donne è questa mediazione in atto. Non è la strada che ha preso Simone Weil, lei ha preso un’altra strada. Il pensiero della differenza (la ricerca del senso libero della differenza sessuale) nasce storicamente dalla necessità della mediazione, tenendo presente che la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse.
Io mi sono azzardata a scrivere un libro sulla fortuna di essere nata donna facendo conto che ci siano donne che hanno accettato di esserlo nella maniera più pacifica e naturale. Ho davanti agli occhi il caso di una mia sorella. Queste donne (che di solito non diventano femministe) sono un ingrediente prezioso per fare società femminile. Anche la relazione tra sorelle, detto per inciso, è un ingrediente prezioso e mi viene in mente la felice idea di Ivana Ceresa di fondare un’associazione ispirata a questa relazione, la Sororità.
Ma il libro l’ho scritto e altri ne ho scritti perché io invece non ero come mia sorella, io avevo dentro quel groppo e non ho accettato la condizione umana così come mi si presentava. Non sono un’eccezione, c’è tutto il movimento femminista a dimostrarlo con la sua abbondante letteratura (lo scrivere, come il parlare, in generale, è lavoro di mediazione).
Quando dico “io sono una donna”, non è un’affermazione naturalistica, è una guadagnata rispondenza tra natura e cultura, una conquista. Per alcune la conquista sarebbe la transessualità. Non sono d’accordo ma conosco la difficile accettazione della condizione umana così come può presentarsi a una donna e so anche che la necessaria mediazione non è un possesso, è un attuare (un agire qui e ora). Quando incontri donne che prendono posizioni per te urtanti, c’è la possibilità di una narrazione inclusiva, senza per questo pasticciare con quello che per te è vero e giusto.
Prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo. La società femminile si regge su un’arte molto nominata e poco indagata, quella di un parlar-male-con misura, così come la società femminista si regge sulla capacità di confliggere senza farsi la guerra.
Un’altra occasione d’imparare le domande che portano alla risposta del parlare bene, è stata per me il cinema a firma femminile. Oggi penso con riconoscenza alla scelta dell’associazione “Lucrezia Marinelli” di raccogliere e far conoscere esclusivamente questo cinema. Non mi viene più l’impulso di confrontarlo con quello selezionato per il grande pubblico, che è maggioritariamente a firma maschile. D’altra parte, non c’è niente di strano se mi sono trovata in difficoltà davanti a un cinema con la sensibile impronta di una ricerca centrata sulle donne. Vuol dire che sono sulla strada di farmi le domande giuste. E proprio per questo, ho cominciato a prestargli un’attenzione speciale, come davanti a una scrittura che comincio a decifrare. Per esempio, nella protagonista del film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo, che è una tipa straordinariamente innamorata di un tipo gradevole quanto poco straordinario, ho riconosciuto un modo di essere posto a grande distanza da me, ma internamente a me (l’intima estraneità…).
Per una ragione simile frequento gli appuntamenti della Quarta vetrina alla Libreria delle donne, promossi dalla critica d’arte Francesca Pasini. In verità la situazione qui è diversa, io sono a disagio davanti all’arte contemporanea in generale. Li frequento per imparare a capire, avendo però capito a che porta bussare, da che porta passare.
L’idea che parlare bene delle donne sia, almeno per me, una risposta e una conquista, mi si è affacciata pochi mesi fa. Una giovane amica del Coordinamento delle teologhe mi aveva interrogato sul fare memoria del passato per andare verso il futuro. Le ho risposto che noi oggi, cioè l’umanità nel suo insieme se posso parlarne a partire da me, abbiamo il problema di sgombrare il futuro, sgombrarlo dalle macerie di speranze finite male e dalla sua attuale destinazione agli scopi dell’economia finanziaria. Una dimensione temporale per accogliere le cose buone, come ai tempi delle utopie politiche, per noi forse non c’è. E allora? Ho risposto: siamo donne, possiamo liberare la prospettiva del futuro generandolo, e mi sono messa a divagare su quest’idea, risalendo a Carla Lonzi che ha detto che noi femministe non abbiamo bisogno del futuro, e prima ancora, fino ai primi cristiani che si erano messi ad aspettare il ritorno del loro Maestro, credendolo imminente.
Ma in pratica, ho dovuto fermarmi e chiedermi, che cosa vuol dire generare il futuro? Ho scoperto così che una risposta buona, almeno per me, c’era già: nei limiti delle mie possibilità, ho scritto, vuol dire obbedire a una richiesta dei nostri tempi che è di parlare bene delle donne, dopo secoli e secoli d’iniqua maldicenza. (Poco dopo aver formulato questa risposta, il direttore di un quotidiano italiano pubblicò un goffo elogio delle donne, in prima pagina; era alle sue prime prove e faceva un po’ ridere, ma c’era lì la timida conferma che si tratta di un’esigenza sentita ai nostri tempi.)
Luisa Muraro
(Via Dogana 3, 21 maggio 2018)