di Andrea Rossetti
Donne, uomini e società, ménage à trois che affrontiamo con una colonna portante della Libreria delle donne di Milano: Francesca Pasini.
Potremmo spendere parole su parole per tracciare l’identikit della Libreria delle donne di Milano, la cosa che ci pare migliore però è stralciare direttamente un brano – breve quanto indicativo – dalla presentazione che tutti potete leggere sul suo sito internet: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Situata al civico 29 in via Pietro Calvi, La Libreria delle Donne è nata a metà dei ’70, a cavallo degli anni di piombo, in un’Italia incandescente che marciava sulla scia del Sessantotto, facendo lo slalom tra proteste studentesche, lotte politiche, sequestri, stragismo – con la non distante Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a fare da apripista – e attentati ad personam mirati a destabilizzare il potere statale. Questo decennio “esteso”, compreso tra la fine dei Sessanta ai primissimi Ottanta, ha concimato e potenziato la rapida affermazione movimenti icona come il Femminismo, la cui ideologia per la Libreria è stata una sorta di condicio sine qua non.
Oggi, dopo quaranta e passa anni dalla sua fondazione, alla Libreria delle donne si sono toccati tutti i registri del pensiero femminile, compreso quello legato alle arti visive grazie l’istituzione nel 2001 della “Quarta Vetrina”, ciclo di mostre/incontri che raccontano l’arte attraverso le donne e viceversa. Da tre anni a questa parte la Vetrina più contemporanea di Via Calvi è passata sotto la curatela di Francesca Pasini. Con lei ci siamo confrontati sul presente di una realtà dal passato così ingombrante.
La libreria è nata nel 1975, in un periodo di femminismo ai massimi livelli, con referendum che sono stati capisaldi del movimento ed una “lotta all’emancipazione” che latente s’infiltrava un po’ ovunque, persino nel panorama musicale dell’epoca. Alla sua base esistevano motivazioni dettate da un oggettivo disavanzo uomo/donna, ricordiamoci che fino al 1981 in Italia vigeva il delitto d’onore, così come il matrimonio riparatore in caso di violenza. Dopo quarantatre anni sono cambiate molte cose, qual è il suo ruolo oggi e come si è adattato alla società contemporanea, dato che si tratta di un ambiente dal background così ideologicamente radicato ed evocativo?
«Non sono tanto d’accordo, nel senso che il primo femminismo quello degli anni ’70, che adesso si chiama delle origini, ha fatto una battaglia frontale contro dei soprusi e delle dominazioni del patriarcato. Indipendentemente dal delitto d’onore, che era orribile, ma tanto adesso c’è lo stesso».
C’è lo stesso, ma all’epoca era “legalizzato”, era un tipo di omicidio per cui il codice penale prevedeva attenuanti specifiche.
«Però quella era solo una ciliegina sulla torta, è stata una grande ribellione delle donne in tutto il mondo. Diciamo che la cosa che sposta il punto di vista, oltre alle battaglie sociali, politiche eccetera, è stata l’idea dell’autocoscienza. Da lì nasce, e poi si moltiplica, quella che è stata una delle prime forme di espressione delle donne, che dicono faccio l’autocoscienza per capire chi sono come sono in relazione ad altre donne, ed anche per capire come reagire. Da lì sono nate tantissime e importantissime posizioni che avevano di fronte un patriarcato ancora molto forte. Quindi era una battaglia frontale che ha prodotto grandi innovazioni. Oggi possiamo dire che la libertà delle donne non ci sarebbe se non ci fosse stato il femminismo. Il passo successivo è individuare nella differenza uomo/donna ciò che dobbiamo affrontare. Quindi non nell’unità, non nella parità, questa è stata una delle battaglie che hanno portato avanti in tanti luoghi del femminismo, e con più costanza alla libreria delle Donne di Milano. La grande svolta è perciò l’autocoscienza, la conoscenza della differenza sessuale, cioè che tutti gli esseri sono sessuati, come aveva detto anche Irigaray in “Etica della differenza sessuale”. A partire da questo si deve riconoscere l’idea che ognuno di noi è portatore di una differenza. Il problema non è unificarla ma metterla in dialogo, e questo è ancora un grande percorso, anche se nel frattempo sono state fatte moltissime cose. La presenza delle donne a tutti i livelli è una cosa degli ultimi anni».
Quindi quello della Libreria è un percorso radicato, ma che continua, è ancora un work in progress.
«Si, e non solo nella Libreria delle Donne di Milano, ma nei femminismi di tutto il mondo. La forza della Libreria è stata inventare la Libreria, nata dai gruppi di autocoscienza che decidono di leggere opere di donne, fino alla fondazione per opera, tra i tanti, di Luisa Muraro, Lia Cigarini, Corrado Levi. Ed anche di un gruppo di artiste, tra cui Carla Accardi, Dadamaino, Valentina Berardinone e Tomaso Binga, che hanno regalato delle immagini per fare una cartella grafica e che è stata una delle fonti di sostentamento. Nasce quindi un legame tra l’arte visiva, che pure in Italia ha partecipato meno direttamente alla nascita ed allo sviluppo del femminismo. Questo nonostante Carla Lonzi, una delle fondatrici del femminismo in Italia, che però decide di interrompere il suo lavoro nell’arte per fare rivolta femminile, da cui nascono i suoi testi famosissimi. Diciamo che in Italia il rapporto diretto, culturale e politico, col movimento femminista per quanto riguarda l’arte visiva femminista è arrivato dopo, prima sono arrivate le scrittrici».
L’arte visiva appunto. E Corrado Levi. La Quarta Vetrina dedicata all’arte è nata nel 2001 su sua proposta, fatto piuttosto emblematico in un contesto smaccatamente al femminile. Non è un po’ come se la donna anche in questo caso fosse nata dalla costola di un “Adamo”?
«No. La libreria delle donne è stata sempre aperta agli uomini, lo è tutt’ora, e comunque Corrado Levi è una personalità che è stata sempre a fianco del femminismo, anche per la sua grande capacità di dichiarare il suo comportamento affettivo pubblicamente, quindi in questo prova anche delle relazioni con la Libreria, e che ha sempre mantenuto. E non è tanto per la sua omosessualità, ma per la particolarità di uomo che ha dato sempre molta attenzione alle differenze, alle diversità».
Quindi non per te fa differenza che all’origine della Vetrina ci sia stato un uomo?
«Anzi secondo me dimostra come ci si possa incontrare tra le reciproche differenze, Corrado ne è proprio un esempio».
Una vetrina mette in mostra, in questo caso arte contemporanea. E una regola base del marketing vuole che il prodotto al suo interno sia accattivante, per cercare di catturare l’attenzione di un pubblico sempre più ampio, altre ai soliti “aficionados”. Mi sposto quindi sul capitolo nuove generazioni: come lavori per far convergere sulla doppia questione artistico/femminile un pubblico più vasto, giovane e social? Ci pensi ad una sopravvivenza futura della Libreria e quindi della Vetrina?
«La sopravvivenza della Libreria non è assolutamente in dubbio. La cosa bella è che sì, metti una cosa in vetrina e quindi chiunque passa sulla strada la vede, però nel giorno dell’inaugurazione c’è un dialogo tra me l’artista e il pubblico. E mentre, come capita spesso in Italia, quando fai una conferenza e chiedi se ci sono delle domande non ce ne sono mai, lì invece c’è un dialogo fantastico. In più senti persone che si avvicinano all’arte partendo anche da conoscenze molto diverse, ci sono politiche come Lia Cigarini, filosofe e scienziate, letterate, scrittrici. Quindi c’è un pubblico che è allenato a questa discussione, perché per ogni cosa che si fa in Libreria c’è sempre questo dialogo, e questo naturalmente crea una partecipazione più attenta, più attiva. E poi perché per ti trovi esser lì un’ora, un’ora e mezza, a dialogare avendo di fronte un’opera e parli di quella; parli e fai domande sia all’artista che a me, e questa è una cosa molto interessante, anche perché sentire parlare un artista lì, dentro un grande circuito di domande, diventa molto intenso».
Ed effettivamente in questo contesto i giovani quindi partecipano, hanno una loro rappresentanza?
«Sì, in Libreria c’è sempre stato un turnover di generazioni».
Domanda da uomo: parlare di “femminile” in molti campi, incluso quello dell’arte contemporanea, non è una auto-ghettizzazione in termini?
«No, più che altro è sbagliato, perché non c’è una cosa femminile, ci sono delle donne che si esprimono in un modo piuttosto che in un altro, così come gli uomini. Non c’è un’arte maschile».
Ma la differenza tra l’arte contemporanea fatta da una donna e fatta da un uomo c’è? Esiste realmente?
«Penso che per forza ci sia soprattutto se tu decidi di ricordarti che hai di fronte quell’opera lì che è fatta da una donna. Potrebbe anche averla fatta un uomo, è che probabilmente dentro quella figura – e per figura intendo in senso lato – c’è qualcosa che rimanda a questa differenza. Penso sia bello anche perché questo ti spinge anche a guardare dentro lavoro di un uomo per capire la sua posizione, anche di vita. Mi piace pensare che Mario Merz nei suoi Igloo abbia la forza dell’Homo faber, che è parte della nostra cultura; Marisa Merz, pur dentro l’Arte Povera, quando fa a maglia le scarpette di Beatrice e le mette sulla spiaggia è evidente che ti rimanda ad una relazione materna. Una differenza è giusto che ci sia, ed è normale».
Quanto vale a tuo avviso il concetto settoriale di “comunità”, visto che la libreria di fondo è una comunità di donne, e quanto invece l’essere umano, nel caso particolare l’artista, dovrebbe svincolarsi ed essere svincolato dall’appartenere ad uno specifico genere e/o orientamento sessuale?
«Ognuno in base alla facoltà di avere un rapporto con se stesso avrà anche un rapporto con l’altro o con l’altra. Credo che l’arte su questo dia tutta la libertà possibile, sapendo che ormai siamo in una condizione in cui è importante che anche un uomo racconti della sua coscienza maschile di uomo, e non solo di artista, superando la contraddizione primaria che è quella uomo/donna. Contraddizione che in realtà è una condizione, in cui magari ci occorreranno ancora secoli per cambiare radicalmente, però oggi come oggi vedo che c’è questa grande apertura, grande libertà, poi sta ad ognuno accoglierla. Intanto le mostre di artiste donne sono tantissime, hanno un successo equiparabile a quello degli uomini, quindi questa difficoltà sta scemando. Sta anche a noi vedere in questo delle cose normali, come è normale che una donna faccia il medico, piuttosto che l’artista o vada nello spazio».
Torno a parlare di uomini, che ovviamente non sono esclusi dagli incontri. Ma che in alcuni casi, dato il tenore dei temi dibattuti, paiono giocare un ruolo che va dall’outsider all’essere “pietra dello scandalo”, dovendosi muovere in una specie campo minato. Qual è il loro rapporto in generale con la Libreria e in particolare con l’attività della Vetrina?
«Naturalmente gli uomini che partecipano anche attivamente ai progetti della libreria sono già uomini che hanno la curiosità rispetto a capire come costruire, come entrare in un’idea di coscienza di sé, di trovare se stessi eccetera. È che magari sono molto incuriositi dal sentire che cosa dicono le donne con le quali discutono, quindi diciamo che è un luogo che viene scelto anche in base alle personalità che arrivano. Io vedo che ad esempio alle vetrine vengono tantissimi artisti uomini, collezionisti: il pubblico è più o meno quello che troviamo alle mostre. Sempre tenuto conto che svariate indagini sociologiche dicono che le donne hanno una partecipazione molto attiva a tutte le espressioni culturali; proporzionalmente ci sono più donne alle mostre o che leggono libri in assoluto, non solo di donne, come non è che le donne vanno solo alle mostre delle donne. Nella cultura le donne non sono più un’eccezione, ma questo non significa che siamo arrivati alla parità che molto spesso viene richiesta come la grande svolta; il problema non è la parità, ma che diritti vengano distribuiti in maniera equa tra uomini e donne. Questa è una grande battaglia che si sta facendo e che in parte è molto migliorata. Il problema è sempre quello di riconoscersi nella propria reciproca differenza, all’interno della quale le scelte affettive sono dei singoli e delle singole. Se no si rischia di dire che è tutto pacificato solo perché adesso siamo più liberali rispetto agli omosessuali, cosa che non era tempi di Oscar Wilde. Bisogna rispettare le scelte, che fortunatamente non sono più un marchio della società, e inevitabilmente riverberano punti di domanda anche in quelli che hanno fatto altre scelte. E da questo punto di vista la libreria è una comunità che aiuta a confrontarti, dove confronti il tuo pensiero».
Quindi gli uomini si sentono parte del gruppo.
«Sì, perché c’è la curiosità di un confronto».
Secondo te la lotta tra sessi come c’era una volta esiste ancora, oppure è diventata solo qualcosa di pretestuoso?
«Secondo me si è modificata. C’è ancora ovviamente, e questo ce lo ricordano il numero esponenziale dei femminicidi. Diciamo che la libertà attuale raggiunta dalle donne, dove tutte lavorano, e anche all’interno della rottura della staticità dal rapporto familiare, cioè che ti sposi una volta e poi mai più come succedeva fino al ’74, fa sì che poi qualche donna dica di no. Ma gli uomini non sono ancora così diciamo profondamente allenati ad accettare un no da una donna. Credo che molte di queste reazioni esagerate provengano da questo, sono troppe, sono troppo frequenti, non sono l’eccezionalità che può succedere in una situazione di grave aggressività. Succedono quasi tutte dentro storie matrimoniali, dentro rapporti affettivi consolidati. In libreria quelli e quelle che vengono possono confrontarsi anche su questo, sul conflitto relazionale piuttosto che sul conflitto frontale, perché lì questo succede. Quindi da questo punto di vista c’è un confronto che vale per tutti, che può aiutare a entrare nel comportamento del singolo e della singola. Però per quanto riguarda il conflitto tra i sessi che dicevi tu mi sento di dire che si è modificato, e che c’è una resistenza fortissima legata alla libertà e all’autonomia delle donne, che non è ancora una base fondante della società. Perché ancora non si ragiona sul fatto che siamo che apparteniamo tutti alla stessa specie, ma che abbiamo connotazioni fisiche e psicologiche diverse. Se ci riconosciamo come differenza tra uomini e donne, invece che come contrapposizione, allora qualcosa cambierà, ma naturalmente non è un cambiamento che succede così rapidamente. Certo la libertà delle donne, il cambiamento sociale, il divorzio, l’aborto, sono state tutte cose che hanno minato profondamente il patriarcato, che è più debole oggi, non ha più la forza di tempo. Però i cambiamenti profondi avvengono nel profondo, quindi dobbiamo forse essere un po’ aperti a vedere che cosa succede, però sicuramente è molto cambiato».
Mi hai descritto un contesto molto libero ed aperto. Arrivo quindi con una stoccata: una Vetrina dedicata ad un uomo come la vedresti?
«Penso che per adesso non sia così urgente. Si potrà fare, si farà, ma in questo momento diventa come attraente e simbolico vedere dalla strada l’opera di una donna. Anche la bellissima opera di un uomo mi piacerebbe, però nell’ambito di questo confronto continuo tra culture e differenze è evidente che è più forte far vedere l’opera di una donna, nel senso che anche più comprensibile».
Quindi diciamo che in vetrina le donne funzionano di più, anche se un uomo non lo escludi a priori
«Non lo escludo, penso che anche per un uomo sarebbe una bellissima chance. Questa Vetrina non è uno spazio agibile solo dalle donne, è agibile dall’arte».
Beh, mettere un uomo in vetrina alla Libreria delle Donne sarebbe una bella provocazione, più che altro per far trasparire all’esterno il dialogo che esiste al suo interno
«Sì, ma l’uomo in vetrina è stato da migliaia di anni, adesso può aspettare un po’, soprattutto nell’arte».
Curioso, l’uomo sarà pure stato più sovraesposto, ma non era la donna quella che stava in vetrina, la classica “donna oggetto”? Alla fine anche in questo controsenso c’è un ennesimo gioco tra sessi
«Sì, certo, ma che in questo caso viene sfatato perché nelle vetrine della Libreria ci sono libri ed opere d’arte. Libri di donne ed opere d’arte di donne. Quindi quest’idea del mettere in vetrina, che era un aspetto un po’ “sessista” e usato come modo di dire, viene smitizzata con semplicità».
(www.exibart.com, 29 agosto 2018)