6 Novembre 2018
Internazionale

Le guerriere del Midterm

di Ida Dominijanni

«Non è l’anno della donna, è l’anno delle donne», titola il sito della Cnn. «Non chiamatelo l’anno della donna, chiamatelo l’alba di una nuova era politica», scrive Jill Filipovic su Harper’s Bazar. «Se il 2018 passerà alla storia come l’anno delle donne non sarà solo per il record di candidate, ma anche e soprattutto per l’ondata di attivismo che è esplosa tra le donne», scrive Kate Zernike sul New York Times. Non ci stanno, loro e tante come loro, a incastonare e incastrare la mobilitazione femminile degli ultimi due anni nel numero di seggi rosa che alla fine uscirà dalle urne delle elezioni di metà mandato, né nel numero di record femminili che verranno stabiliti. Le elezioni durano un giorno, le legislature quattro anni, ma la scommessa della politica delle donne è più alta e più lunga. E il record più importante, l’aver messo in moto un’onda inarrestabile di soggettività politica femminile nel paese più potente del mondo governato da un presidente suprematista e misogino, è già stato incassato.

Certo, i numeri aiutano e confortano: su un totale di 964 candidati, le donne sono 272, e tra queste le candidate di colore sono cresciute del 75 per cento rispetto al 2012 e le bianche del 36. E anche i record sono significativi: Alexandria Ocasio-Cortez, la barista di 28 anni di origini portoricane che ha vinto le primarie democratiche del Bronx, può diventare la deputata più giovane della storia americana; Ilhan Omar, 36 anni, e Rashida Tlaib, 42, che le hanno vinte in Minnesota e in Michigan, le prime musulmane (e Omar la prima rifugiata); Stacey Abrams, 44, scrittrice e avvocata, la prima governatrice afroamericana, dopo 82 governatori bianchi, in uno stato di tradizione segregazionista come la Georgia; Deb Haaland in New Mexico e Sharice Davids in Kansas le prime deputate native americane e Paulette Jordan nell’Idaho la prima governatrice anche lei nativa; Gina Ortiz Jones la prima deputata veterana di guerra e dichiaratamente omosessuale, Lupe Valdez la prima governatrice ispanica e lesbica (entrambe in Texas), Christine Hallquist la prima governatrice transgender (del Vermont). E si potrebbe continuare a volontà considerando anche i seggi in palio al livello locale, ottima scuola di formazione della futura classe dirigente femminile. Che vengano conquistati o no, questi primati rendono efficacemente la novità principale di cui le donne sono portatrici nel campo democratico: un’impennata del numero di candidate delle cosiddette minoranze coloured e lgbqt. Attenzione però, non si tratta della tradizionale identity politics che allinea e coalizza le suddette minoranze per quote di rappresentanza, ma precisamente del suo superamento nella pratica della “intersezionalità” rivendicata a lungo dal femminismo americano e diffusasi a macchia d’olio nelle mobilitazioni femminili più recenti.

“Intersezionali”, ovvero risultanti dall’intersezione tra diversi tratti identitari, sono gli stessi profili delle candidate: ciascuna si presenta e si rappresenta come una singolarità meticcia, che mescola ed elabora in modo originale le impronte di genere, di classe e di razza da cui la sua storia è marcata, e intreccia di conseguenza femminismo, lotta sociale e lotta al razzismo, con la consueta capacità delle donne di costruire reti di relazioni a partire da sé. Sottoscritta con un’intenzionalità comune alla Women’s march contro Trump del gennaio 2017, questa pratica ha finito col diventare un grimaldello per rinnovare la strategia, i metodi e la stessa constituency del Partito democratico: per allargare la platea dei votanti, avvicinare gli astensionisti, rimotivare le minoranze deluse, conquistare i giovani, spostare a sinistra, e spesso su contenuti socialisti, l’asse di un discorso politico da troppo tempo centrista. Per farsi un’idea di questa dirompenza basta fare la conta dei candidati democratici moderati sconfitti sul campo alle primarie, e leggere il racconto della campagna di Ocasio-Cortez contro Joe Crowley o di quella di Stacey Abrams e del suo staff multirazziale all’insegna dello slogan «You build what you intend to see».

L’efficacia dell’intersezionalità non può comunque far passare in secondo piano la centralità che la presa di coscienza e di parola femminile è tornata ad avere nella società americana sotto il doppio colpo della elezione di Trump, revenant dell’uomo bianco suprematista, e della sconfitta di Hillary Clinton, insegna consunta di un femminismo neoliberale troppo concentrato sull’obiettivo della rottura del “soffitto di cristallo”. Ci voleva una doppia riscossa e c’è stata. Per molte è cominciata semplicemente come racconta Caroline Stover, leader del gruppo Resist Trump Tuesdays di Atlanta, in un lungo reportage del Washington Post: «Sentivo che il modo in cui Trump degradava le donne e altri gruppi mi riguardava in quanto americana. Avevo bisogno di alzare la voce e dire “Questo non è il mio presidente, non è la mia America”». O come ricorda Jasmine Clark, ex sostenitrice di Bernie Sanders e ora candidata a sua volta: «Sono una donna, una nera, una scienziata, e quando Trump è stato eletto ho sentito che tutte e tre queste parti della mia identità erano sotto attacco, e ho deciso che dovevo fare qualcosa».

Dal 9 novembre di due anni fa a oggi la mobilitazione femminista non si è mai arrestata e si è radicalizzata, nei contenuti e nelle pratiche. E se è vero che sarebbe un errore misurare i suoi effetti dal numero di elette nei palazzi di Washington, è altrettanto vero che la fioritura di candidature femminili non ci sarebbe stata senza i precedenti delle già ricordate Women’s march e del #MeToo. Quest’ultimo ha rimesso al centro del discorso pubblico la parola femminile e la sua credibilità, ha incrinato visibilmente il consenso delle donne bianche nei confronti di un presidente accusato anch’egli più volte di molestie, e lo ha eroso anche all’interno dell’elettorato femminile repubblicano. Non senza contraccolpi tuttavia, come dimostrano gli effetti divisivi del caso Kavanaugh, che se per l’opinione pubblica illuminata, femminile e maschile, ha squarciato il velo del revanchismo dell’uomo bianco disposto a tutto pur di mantenere il suo potere traballante, per l’opinione pubblica trumpiana, maschile e femminile, dimostra invece la forza dello stato di diritto e del garantismo contro la sete di giustizia “fai da te” delle vittime di violenza: una argomentazione che torna a motivare, oggi, la fedeltà di alcune candidate repubblicane al presidente.

Un uso della legalità e del garantismo a difesa dei potenti che ben conosciamo in Italia, dove il

#MeToo è stato non a caso costantemente denigrato, a differenza che negli Stati Uniti, dalla quasi totalità dei media mainstream di ogni colore politico, fino al numero tuttora in edicola della rivista Micromega, dedicato ai “limiti” del #MeToo senza che se ne ricordi in precedenza uno dedicato alle sue ragioni e ai suoi meriti. O fino a una recente pagina della Lettura del Corriere della Sera sul suo presunto marchio irreparabilmente “hollywoodiano”, come dire che gli uomini italiani possono stare tranquilli perché da noi non attecchirà mai.

Intanto, nel cuore dell’impero, nessuno ha paura di dire che l’esito del Midterm è in gran parte in mano alle donne, candidate e soprattutto elettrici, visto che fra gli elettori registrati gli uomini sono per il 50 per cento favorevoli ai repubblicani e per il 44 per cento ai democratici, le donne favorevoli ai democratici per il 58 per cento e ai repubblicani per il 34. Se le americane oggi andranno in massa a votare, insieme con i millennial che sono scesi in piazza contro le armi, e se infliggeranno a Trump la prima battuta d’arresto dopo la sua resistibile ascesa, qualcosa sarà dovuto alle coraggiose guerriere anche dagli uomini italiani ed europei che attendono dal Midterm un segnale di interruzione della deriva sovranista globale.

(Internazionale, 6 novembre 2018)

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