Daniela Padoan
Recensione di “Lingua bene comune”
a cura di Vita Cosentino
Città Aperta Edizioni, pp.258, € 16
Un volume collettaneo, lo si chiamerebbe in gergo editoriale, ma già a sfogliarlo appare un’assemblea – per usare una delle tante belle parole abbandonate come balocchi rotti nel nostro passato – in cui prendono la parola molte donne e qualche uomo; maestre, insegnanti e docenti legati dalla comune passione per la lingua e il suo dono di libertà.
Il testo di Vita Cosentino, curatrice di Lingua bene comune edito da Città Aperta (pp.258, € 16) apre la raccolta dialogando con Anna Maria Ortese, una presenza che, significativamente, comparirà spesso nei ventiquattro contributi che compongono il libro. Ortese, “di modestissima famiglia d’origine, si chiede come mai da adolescente e poi per tutta la vita il problema espressivo sia diventato per lei tanto forte da gareggiare con lo stesso problema della sopravvivenza, e tuttavia esprime timore a soffermarsi su questi argomenti, perché non sembrano abbastanza democratici”. Da adolescente e poi per tutta la vita, Vita Cosentino sente un “testardo desiderio di riuscire a scrivere”, di dirsi nella relazione con altri che passa per la pagina scritta, perché “le parole non vivono isolate nella testa della gente, vivono di continui rimandi ad altre parole di altri esseri umani, ed è questa la trama che fa senso”.
Ma come mai le parole – queste “impenitenti vagabonde”, come le definiva Virginia Woolf – possono diventare certificati di esclusione e di autoesclusione? Viene in mente l’esperienza delle Madri argentine di Plaza de Mayo quando – dopo aver affrontato e vinto una dittatura militare, ormai note in tutto il mondo – sentirono l’esigenza di scrivere ciò che più profondamente sentivano, per trovarsi di fronte a un sovrastante senso di inadeguatezza e di pudore. “Fu allora” dicono “che capimmo che quel nostro sentire di non essere autorizzate a scrivere, perché eravamo ignoranti, era solo un’altra faccia del potere, e che potevamo combatterla, perché le parole hanno bisogno di essere nutrite e protette, proprio come figli”.
Quando i conti della lingua non tornano, scrive nel suo saggio Luisa Muraro, “resta al fondo un insormontabile, inesprimibile, quasi sempre inconsapevole eppure continuo, forte e sensibile senso di inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non accogliente e democratica ma ostica e usuraia”. Proprio per questo, che altro significa insegnare italiano a un ragazzo, a una ragazza, se non “far loro provare e praticare il passaggio dalla mutezza di un vissuto ancora verde alla costruzione di un mondo intersoggettivo? E poi, mostrare come la lingua sia genialmente attrezzata per rispondere ai loro bisogni simbolici, e non solo; come anche sia disposta a tener conto dei loro rapporti idiomatici e a valorizzarli?”
Eccoci dunque all’opera di amore di chi insegna a parlare: agli inizi della vita, quando il mondo si consegna alla possibilità di essere significato, della madre; e poi delle maestre, delle insegnanti (e dei maestri, degli insegnati), così che, secondo Laura Fortini, la scommessa dell’insegnamento della letteratura diventa “una lingua da abitare per sé e per il mondo in cui si vive, in cui rimanga vivo il nesso con l’esperienza, in cui non si perda la singolarità di ognuno, di ognuna: una lingua quindi che aiuti a nominare la propria esperienza e a renderla più significativa, a modificarla, anche, conseguentemente”.
Dispiace non citare tutte le autrici – Paola Bono, Gisella Modica, Pina Mandolfo, Chiara Zamboni tra le altre – che nei loro interventi delineano un pensiero cresciuto nel movimento delle donne, in cui si dà la possibilità di riaprire oggi – sulla libertà e non sul potere, diversamente da ciò che accadde negli anni Sessanta – una scommessa politica sulla lingua.