Domenico Starnone
Le statistiche dicono che in cattedra ci sono soprattutto donne: quasi il cento per cento nella scuola materna, sotto il novantacinque alle elementari, l’ottantacinque nella media inferiore, oltre il sessanta nelle superiori. Naturalmente non sono necessarie percentuali così cospicue – e per di più sempre un po’ in ritardo sull’evoluzione della situazione reale – per convincersi che è vero. Se si portano i figli all’asilo, si sperimenta direttamente che ci sono solo maestre. Alle elementari è sparito il maestro del Cuore, quello di Vigevano, e la norma sono ormai le maestre. Anche quando ci affacciamo nella scuola media inferiore ci rendiamo conto con un solo colpo d’occhio che, se i professori sono meno rari, le professoresse abbondano e coprono tutti i ruoli. Quanto alla scuola media superiore, basta andare qualche volta a informarsi sull’andamento scolastico dei nostri figli: i professori sono una minoranza; le professoresse dominano.
Dominano, bisogna dire, sotto tutti gli aspetti. Mettiamo per esempio che avete bisogno di rivolgervi alle scuole per coinvolgere docenti e studenti in qualche iniziativa culturale. Scoprite subito che le difficoltà sono notevoli, gli intralci burocratici numerosi, ma che una volta individuata l’area più attiva della scuola il più è fatto. Bene, quell’area è popolata di donne ed esprime in genere figure femminili di prestigio, colte, efficienti, piene di idee. Come a dire che è al tramonto anche la vecchia figura del gallo nel pollaio, il docente di buona cultura, estroso, seducente, quello che sapeva tutto, parlava bene e fungeva da polo per tutte le iniziative, le impennate, le rivolte, la giusta linea politico-culturale.
La femminilizzazione dell’insegnamento è dunque un dato di fatto ed è difficile che si torni indietro. Ma i dati di fatto di per sé non dicono granché, possono essere buoni o cattivi a seconda dell’ottica con cui li si guarda.
Cominciamo dagli sguardi cattivi, che non sono pochi. C’è chi ritiene che la femminilizzazione dell’insegnamento abbia trascinato in basso gli stipendi degli insegnanti e che sia proprio la massiccia presenza femminile nella scuola a impedire la valorizzazione innanzitutto salariale del ruolo del docente. C’è chi pensa che le donne siano sesso debole, incapaci quindi di imporre disciplina e controllo nelle classi, cosa da cui discenderebbe il malgoverno delle scuole o, alla rovescia, la risposta di inconsistente autorità alla degradazione antropologica delle nuove generazioni strette tra tv e consumismo. C’è chi sostiene che la cura sostanzialmente tutta femminile dei figli, della famiglia, comporti che per le donne l’insegnamento sia di fatto un secondo lavoro, cosa che da un lato avrebbe abbassato la qualità dell’insegnamento, dall’altro spingerebbe le docenti a percepire ogni innovazione come una minaccia al precario equilibrio tra casa e scuola. C’è chi si immagina che l’educazione in mani essenzialmente femminili costituisca un gravissimo attentato all’identità maschile, già insidiata dalla marcia inarrestabile delle donne in tutti i campi. C’è chi persino teme che il pensiero vero, la cultura vera siano definitivamente maschili e che di conseguenza le donne non possano fare altro che un pessimo lavoro di trasmissione, un lavoro da estranee che capiscono poco loro e quindi rimbecilliscono i ragazzi.
Sono esagerazioni, spesso sciocchezze, e vediamo perché.
E’ vero che l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro si accompagna in genere a un peggioramento delle condizioni salariali, ma è anche vero che l’insegnamento almeno in Italia è stato sempre mal retribuito, basta riesaminare la condizione di vita degli insegnanti di ogni ordine e grado dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi. Il problema delle basse retribuzioni ha a che fare piuttosto col peso irrilevante che i governi hanno in genere attribuito alla scuola pubblica e con lo scarso credito socioculturale che ha tradizionalmente avuto insegnare ai bambini e ai ragazzi. Alla retorica sul compito delicato dei docenti, ha sempre corrisposto in pratica l’idea che si tratti di un lavoro terra terra, con un bassissimo tasso di specializzazione, di quelli che anche un passante scolarizzato di buona volontà saprebbe fare meglio di tanti insegnanti (maschi o femmine) oziosi. Non è dunque l’ingresso massiccio delle donne a scuola che ha declassato l’insegnamento, ma l’insegnamento nelle società industriali è nato declassato, un’appendice dell’attività di cura o di un più generale controllo ideologico, quindi ‘femminile’ anche quando era a dominanza maschile.
Anche l’inadeguatezza del sesso debole è un po’ una scemenza. Per molti aspetti è vero che il lavoro nelle classi si è fatto particolarmente duro e che le condizioni dell’insegnamento sono per certi aspetti più difficili se non addirittura rischiose, ma si esclude che il selvaggio maschio in cattedra rimetterebbe tutto a posto imponendo ordine e disciplina come un giustiziere nei film di Hollywood. Molti dei gravi disagi che attraversa l’insegnamento non dipendono dai luoghi comuni sul sesso di chi insegna, ma da un’istitituzione povera di mezzi e complessivamente arretrata che lascia soli i docenti di fronte alle difficoltà quotidiane.
Anche il doppio carico di lavoro che caratterizza la condizione femminile non è una gran novità. Certo le insegnanti-madri devono fare salti mortali (i figli, la gestione della casa, tensioni private di tutti i tipi e d’altro canto la necessità di studiare, aggiornarsi, programmare, correggere etc.) per fare bene il loro lavoro, ma i docenti-padri hanno fatto e fanno tradizionalmente di peggio. Il doppio lavoro maschile per esempio si è andato sempre più diffondendo. Ci sono insegnanti-ingegneri, insegnanti-architetti, insegnanti-speziali, insegnanti che coniugano insegnamento pubblico e lezioni private, insegnanti che sono artisti-poeti-giornalsti-scrittori, etc. Con una differenza non irrilevante: insegnare per le donne è in genere il loro primo lavoro: nella scuola realizzano la loro identità pubblica; mentre insegnare per gli uomini doppiolavoristi è più spesso il lavoro di ripiego (un insegnante-ingegnere si presenta come un ingegnere, non certo come un professore): quello d’obbligo, la loro realizzazione pubblica si compie altrove.
Quanto all’ipotesi poi che le donne-insegnanti siano una minaccia per l’identità dei giovani maschi, essa sembra più uno dei canali attraverso cui si manifestano antichissimi terrori maschili, che una realtà. Esiste sicuramente un complessivo ripensamento in atto della figura simbolica del maschio, pressata dall’avanzata delle donne in ogni settore della società, ma si tratta di uno dei tanti mutamenti storico-antropologici in atto, non da poco ma nemmeno così nuovo e sconvolgente. E’ l’intero ordine di senso dentro cui si muovono tradizionalmente i sessi che è terremotato. Ma altre tipologie del maschile nasceranno, i rapporti tra i sessi troveranno nuovi equilibri economici e culturali, e non si vede cosa c’è da disperarsi.
Più sensato è preoccuparsi per la sostanziale estraneità delle donne alla tradizione culturale tutta maschile che sono tenute a trasmettere in quanto insegnanti. Non è però la massiccia presenza femminile nelle scuole a costituire un ostacolo per la trasmissione della tradizione elaborata sempre e soltanto dal pensiero maschile, ma sono le grandi potenzialità innovative di quella presenza femminile nelle scuole che è decisamente soffocata dentro il canone tradizionale della scuola: metodi di insegnamento, contenuti dell’insegnamento, rituali scolastici. Sono le donne cioè che per fare bene il loro lavoro di insegnanti sono costrette in un modo o in un altro a ripensare la scuola, l’insegnamento e ciò che si insegna da cima a fondo.
Qui passiamo agli sguardi benevoli.
Sotto gli occhi infatti abbiamo ogni giorno anche parecchie altre cose che le statistiche non dicono, e cioè i tratti innovativi di una scuola fatta essenzialmente da donne. Certo, le insegnanti sono diverse l’una dall’altra. Ci sono quelle sovraffaticate, che devono correre dietro a mille cose, e quelle che lavorano con agio. Ci sono quelle che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e quelle ben coniugate che usano lo stipendio per le piccole spese. Ci sono quelle coltissime e quelle che non aprono libro dai tempi della laurea. Ci sono quelle attentissime ai bambini e ai ragazzi di cui si occupano e quelle che danno i numeri. Ci sono quelle annientate dalla vita e quelle ricche di energie, fantasia, iniziativa. Ma il dato di fatto è che va crescendo una sorta di ottimismo femminile d’avanguardia con una forte capacità di attrattiva, il quale da un lato seppellisce il docente postsessantottesco o lagnoso o sempre in attesa di una nuova stagione di lotte, dall’altro si fonda su una nuova figura di insegnante-donna che pone al centro, con tutto il suo peso sociale, politico, di critica del sapere, la relazione docente e l’insegnamento.
Da dove viene questo senso di scuola comunque viva, comunque positivamente al lavoro? Vita Cosentino, che è una delle animatrici di un movimento tra i più densi di riflessione e autoriflessione all’interno della scuola oggi, quello denominato dell’Autoriforma gentile e che rimanda al pensiero della differenza, faceva notare qualche tempo fa come la scuola, spesso criticata duramente dagli uomini che vi hanno visto la ratifica delle disuguaglianze, grandi arretratezze eccetera, sia stata invece per le donne, malgrado tutto, uno strumento importante di liberazione e di crescita, innanzitutto come scolare, poi come insegnanti. Certo, bisognerebbe aggiungere: per le bambine e le ragazze che non ne sono state escluse per colpa delle arretratezze istituzionali, del vizio scolastico di ratificare disuguaglianze. Ma questo è un discorso qui inessenziale. Quel che conta invece è una sorta di positività di fondo nel rapporto tra donne e scuola che, per le donne dell’Autoriforma gentile, ha dato da tempo i suoi frutti. Tanto che oggi, nelle mani delle insegnanti più consapevoli, la scuola è potenzialmente uno spazio pubblico importante di appropriazione critica della tradizione maschile e di reinvenzione dell’insegnamento. Per il gusto di seguire questa buona scia di positività, va letto Buone notizie dalla scuola (Pratiche editrice, 1998), un libro il cui titolo ottimistico non delude, può avviare ad altre utili letture, mantiene soprattutto la promessa di mostrare che è in atto lo sforzo di uscire da un’immagine di scuola come palude e disegnarne un’altra in cui tutto è ridiscusso nell’ottica nuova della relazione docente e del pensiero della differenza sessuale, da come si insegna a cosa si insegna, dai tempi e gli spazi dell’insegnamento alla valutazione dei risultati.
In realtà le rose e i fiori, che pure ci sono, non riescono comunque a nascondere che la crisi della cosiddetta scuola di massa è profonda, attraversa tutti i paesi industrializzati, ha un centinaio d’anni alle spalle e i dibattiti ricorrenti mostrano sempre una cosa sola: non si sa ancora con quali strumenti, con quali metodi, con quali investimenti economici si possa coniugare qualità dell’istruzione e quantità degli istruiti. Tuttavia la riflessione in atto è, grazie alle insegnanti, di nuovo vivace e prova che dall’interno della scuola possono venire ancora teorie e pratiche capaci di andare oltre le analisi, le proposte e gli interrogativi novecenteschi sui modi di insegnare e di apprendere. Questo ci deve confortare tutti.