Maria Grosso
«Di che cosa parliamo quando parliamo di scuola elementare?». In particolare
adesso, mentre i fumogeni lanciati dalle ultime deflagrazioni «legiferine» (la
famigerata 133), tentano di accecarci con parole stranianti come «maestro
unico», dove il sostantivo e relativo aggettivo al maschile stridono
insopportabilmente con la carne di un paese che ha visto le maestre superare in
numero i maestri già dalla fine dell’800, per giungere ai dati attuali di una
professione quasi interamente nelle mani delle donne.
È in questa nube di follia collettiva preordinata che si avverte forte
l’esigenza di testimonianze che ci restituiscano la verità violata di quel
mondo. Accade con L’amore che non scordo, storie di comuni maestre,
documentario di Daniela Ughetta e Manuela Vigorita, da poco edito in dvd dalla
Libreria delle Donne di Milano, unitamente a una piccola ma densissima raccolta
di scritti, a cura di Vita Cosentino e Marina Santini, che raccontano non solo
il tracciato del film ma anche l’humus di riflessioni in cui si è sviluppato.
Un’opera profondamente sana, germinata dal cuore stesso della scuola, ossia da
quel Movimento per l’autoriforma, che dal 94 (quando escono due cruciali
articoli sulla valutazione), ha convogliato istanze di cambiamento contrarie
alla logica degli interventi eteronomi (regolamentazione dall’alto, la Legge
Gelmini ne è macroscopico esempio), per sostenere invece il desiderio-diritto
all’autodeterminazione delle maestre e dei maestri stessi. Un processo che si è
intimamente intrecciato all’emergere tra le insegnanti di una consapevolezza
del loro essere portatrici di differenza sessuale all’interno della scuola. Non
a caso si è scelto di definirla autoriforma gentile in minuscolo, a opporsi a
un’idea di istruzione storicamente arcaica, ma trasversalmente comune tanto
alla visione aziendalistica che a quella gentiliana, al cui vertice è «il
professore» e al cui fondo «le maestre». Contro un sapere concepito come
certezze neutre da imporre, formalismo che misura e punisce, apprendimento in
termini di mera produttività, l’autoriforma ha invece alimentato una «pedagogia
del volto» e della relazione, «materno» come prossimità al senso basico delle
cose, come primo accogliere emozioni corpo e intelletto in unico flusso di
esperienza e simbolizzazione. (In questo senso, dietro l’apparentemente
grottesco ripescaggio del «maestro unico» si può ravvisare anche una volontà di
innescare processi involutivi lesivi del lavoro femminile e della società
intera).
È seguendo questo impulso che le Voci maestre (2004) – titolo del libro di
Maria Cristina Mecenero, con Vita Cosentino tra le promotrici del Movimento
dell’autoriforma nonché del documentario – hanno infranto quel silenzio che le
voleva mute e isolate le une dalle altre, filatrici di un sapere escluso dai
circuiti di ricerca istituzionali. Tutto è nato dal bisogno di esplorare i
confini della propria soggettività, rimodulandone continuamente gli orli,
grazie all’osservazione del lavoro dell’altra, negli spazi canonici delle
compresenze (Legge 148 del 90), e non. Un «cerchio di fiducia e di sguardi»,
che svela l’irrinunciabile portata del lavoro collettivo compiuto in questi
anni.
A questa necessità di specchiarsi si deve, per propagazione, il ramo
cinematografico del progetto. Scrittura intrecciata fra le filmaker e le due
insegnanti (produce Tv Days di Angelo Ferranti), L’amore che non scordo sceglie
quindi di immergersi nelle esperienze di quattro maestre, di un maestro, e dei
loro bambini. Non un «diario», come quello di De Seta, ma appunti, scampoli,
centrati sulla relazione. I luoghi, Bologna, Milano, Roma. Le classi, dalla
seconda alla quinta del ciclo elementare, mentre le riprese abbracciano un
tempo che va dal 2005 al 2007 (con una settimana in ogni classe). Dunque prima
del sisma Gelmini e tutto il resto. È pensando a questo che le parole di Luisa
Muraro, poste a prologo della pubblicazione, un invito a scoprire e a
traghettare nel futuro quanto di luminoso si cela in questo paese oscuro,
suonano oggi ancora più forti.
Una ricchezza e una complessità a cui le registe, esterne alla materia
indagata, hanno saputo accostarsi con rispetto. «Entrare con le telecamere a
scuola, non solo in classe, è una invasione», dice esplicitamente Chiara, la
maestra che apre il documentario. Così l’incontro è iniziato in punta di piedi
e a macchine spente. Si è poi lavorato sul contatto e sull’affinamento
pulviscolare dell’attenzione. Il risultato è un’aura di fiducia e accettazione,
partitura calda in cui si intersecano momenti di riflessione vis a vis con gli
insegnanti: Chiara, Alice, Bardo (un tempo montatore con Comencini ne I bambini
e noi), Adriana e Cristina (tra le autrici del film), a momenti di vita dentro
e fuori la scuola. Un patchwork di pazienza e attenzione, di continui
microscambi verbali e non, mentre i corpi dei bambini danzano, irrompono,
scuotono, cuscini colorati e fotogrammi: voci, scrive Francesca Comencini
commentando il film, insospettabilmente avide di linguaggio (come quella di
Bogdan, bambino rumeno che forgia parole che ci restituiscono la nostra lingua
nuova, il che basta a stroncare qualunque discussione sulle «classi per
stranieri»).
Tempo. Tempo pieno, «tempo pieno di vita». L’amore che non scordo si accosta
al «mistero» dell’eccellenza della scuola elementare italiana. Una storia di
lotte, di leggi e di conquiste, che va oltre la tecnica e la didattica, a porre
al centro la qualità della relazione che ciascuna maestra maestro sa creare con
il proprio tempo e con quello dei bambini. Qualcosa che non ha niente di
eccezionale, che non è misurabile né intellettualizzabile. Qualcosa di «comune»
nel senso più alto del termine, ossia di primariamente umano e condiviso.