di Franca Fortunato
In tutti questi giorni in cui l’Ilva ArcelorMittal è stata al centro dell’attenzione del paese molto si è detto e scritto, tutti hanno ripetuto che l’Ilva non può chiudere perché è la fabbrica di acciaio più grande d’Europa, pochi hanno ricordato che è la fabbrica di morte più grande d’Europa. Da anni le donne del quartiere Tamburi si battono per la chiusura di quello che è «un mostro, un ammasso di ferro, da cui escono solo fumo, veleni, morte e disperazione» e che ha reso la città «la terra d’ombra bruciata» – come dice il titolo di un libro di Valentina Nuccio, in cui raccoglie le vite, le storie «raccontate tra lacrime di gioia e di dolore», di bambini/e, donne e uomini condannati dal cancro –. Terra d’ombra bruciata è il colore ferro, ruggine, delle polveri che fuoriescono dalle ciminiere perché non sono messe in sicurezza – chi avrebbe dovuto metterle in sicurezza in sessant’anni di vita del “mostro”? – Quando il maestrale urla – racconta Lucia, ammalata terminale di cancro – gli abitanti di Taranto piangono. Le polveri volano. «Stiamo morendo a centinaia avvelenati da una cosa che si chiama diossina e benzopirene». Il vento costringe a stare chiusi in casa per giorni interi, mentre fuori c’è il sole, e i veleni si depositano ovunque. Sui vestiti, sui balconi, sui terreni, sull’erba, nel fondo del mare e soprattutto, nei polmoni. Il padre cassintegrato di Sofia, leucemica a quattro anni, piangendo racconta il dramma suo e di tanti come lui: «A Taranto o muori di fame o muori di tumore. Io sto uccidendo mia figlia». Stella a sei anni e mezzo si è ammalata di tumore, la sua amichetta sin dalla scuola materna, Camilla, un anno prima non è sopravvissuta. «Non ho partorito con dolore e sofferenza, urlando e strepitando, – dice la madre di Stella – per poi farmela togliere dal cancro. Quando la stringo penso che mia figlia non ha avuto un’infanzia».
Sono loro le mamme coraggio che si aiutano nel reparto oncologico, piangono insieme e alle volte sorridono insieme. Ogni mese, nel silenzio dei media, da anni scendono in piazza contro la fabbrica, e come le madri di Plaza de Mayo urlano i nomi dei propri figli e figlie ammalati/e o morti/e di cancro. Alcune di loro in questi giorni infuocati erano sul ponte girevole di Taranto per dire «Chiusura e riconversione, unica soluzione», «I bambini di Taranto vogliono vivere». Ma chi ascolta il loro grido di dolore, o chi accoglie il sogno di una madre che dice a sua figlia: «Figlia, forse io non farò in tempo a vedere l’Ilva spegnersi, ma quanto vorrei che lì ci fosse un grande parco divertimento, dove i bambini possano correre a perdifiato, divertirsi e sognare cosa faranno da grandi».
(Il Quotidiano del Sud, 14 novembre 2019)