di Lia Cigarini
Intervento al Convegno FIOM, Roma, 28 novembre 2019
Esporrò qui il pensiero elaborato insieme a Giordana Masotto e Michela Spera.
Il contratto del 1969 che si celebra oggi con le sue grandi conquiste è l’epilogo di un decennio di lotte iniziate nel 1960 con lo sciopero degli elettromeccanici, concentrati soprattutto a Milano e nella sua provincia. È stato uno sciopero importante, gestito con grande sapienza dalla FIOM e anche dalla FIM (segretari Sacchi e Volontè).
Sono venute fuori allora tre figure che domineranno l’intero decennio e oltre: i giovani operai più scolarizzati dei precedenti, le operaie e gli studenti, ragazze comprese.
Questa lotta io ho avuto la fortuna di viverla dall’interno. Ero infatti a Milano segretaria del Circolo A. Banfi composto per lo più da studenti comunisti.
Abbiamo iniziato subito a unirci ai picchetti operai davanti alle fabbriche, naturalmente a quelle dove era necessario il picchetto, e volantinato all’università per dare notizie sullo sciopero.
La prima sorpresa è stata che l’Unione Goliardica (UGI) cioè la più forte organizzazione studentesca dell’Università Statale di Milano, aderì allo sciopero e al picchettaggio e poi iniziò anche una raccolta di fondi per sostenere gli scioperanti.
Il giorno dopo, il quotidiano “l’Unità” diretto da Aldo Tortorella e che aveva ben due giornalisti impegnati nella cronaca dello sciopero, intitolò in prima pagina “Operai e studenti picchettano le fabbriche”.
La seconda sorpresa è stata che le operaie erano ben presenti e determinate nella lotta. Ricordo quelle ore e quegli incontri davanti alla Face Standard e alla Sit Siemens di Milano: tra gli studenti la metà erano ragazze.
E arrivo al punto che più mi interessa: il contratto degli elettromeccanici si chiuse con una conquista che credo molte sindacaliste considerano fondamentale per attenuare la sofferenza specifica delle donne nel lavoro: la contrattazione di secondo livello.
Infatti la contrattazione di secondo livello (integrativa come si diceva una volta) ha un valore quasi insostituibile. Tale valore le viene dalla conformità al linguaggio. Parlare – tra operai/e e delegati/e – è una forma di contrattazione, la più elementare. Voglio dire che la lingua non è una comunicazione individuale, ma nasce dallo scambio fra parlanti e non diventa mai dominio esclusivo di qualcuno, ma resta sempre – per restare viva – comune.
La contrattazione di secondo livello, quindi, è una pratica (tra l’altro molto simile a quella che il movimento delle donne si è data, quella della relazione) che nei rapporti di valore può far valere il di più che le donne sono, pensano e vogliono. Senza la contrattazione articolata si rischia di sottrarre competenza pratica e simbolica a quelle donne e uomini che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro.
Nella organizzazione e nella rappresentanza invece, la presenza femminile tende a diventare questione di posti e quote. Nell’informatica si parla di interfaccia tra uomo e macchina. Ecco: la contrattazione realizza l’interfaccia tra economico e simbolico, fra soldi e parole. Le due cose si toccano senza confondersi.
Michela Spera mi precisa che quella importante conquista deve intrecciarsi con la necessità dei contratti collettivi. Sono d’accordo, ma ci tengo a precisare che sono due livelli distinti.
Sempre per stare nella storia, sottolineo che la FIOM, sindacato a grande maggioranza maschile, è stato tra quelli dove le iscritte sono riuscite a diventare protagoniste; e forse quello che ha dato più spazio (in particolare sulla rivista “Inchiesta” e in importanti convegni) al pensiero e alla pratica del femminismo della differenza.
Ma se vogliamo celebrare degnamente il contratto del 1969 dobbiamo parlare del qui e ora.
La maggioranza delle donne è nel mercato del lavoro. La loro presenza è considerata un fatto stabile e una realtà ovvia.
Ciò è avvenuto per tanti fattori oggettivi, ma soprattutto negli ultimi cinquant’anni moltissime donne hanno preso coscienza che l’essere donna non è un’aggiunta o un complemento dell’uomo ma apre possibilità originali alla realizzazione di sé e del mondo.
Dopo cinquant’anni di femminismo la diffusione della parola delle donne è in crescita esponenziale. Riporto quanto scritto da Giordana Masotto presentando il libro di Loriana Lucciarini Doppio carico – Storie di operaie:
«Narrativa e politica si intrecciano e si rafforzano per sgretolare mondi a sesso unico. L’ondata del Me-too ha chiuso con la posizione della vittima e il carnefice è rimasto solo.
Prendere la parola ti trasforma in soggetto della scena pubblica. Parla, così ti vediamo scrive Christa Wolf. “Avere il diritto di farsi vedere e di parlare è il fondamento della sopravvivenza, della dignità e della liberta”, dice la femminista americana Rebecca Solnit – che a me piace molto.
Sul valore politico della parola delle donne, Geneviève Fraisse in Il mondo è sessuato, dice che con la parola delle donne c’è sempre il rischio che sia presa per privata. Invece “l’essenziale è identificare ciò che è politico in questa parola”.»
Questa è la scommessa che abbiamo di fronte: capire il senso politico della parola delle donne.
Oggi ci sono due soggetti differenti nel lavoro e nel sindacato. Invece il ’900 ha appiattito le donne sul lavoratore maschio. Evitando di affrontare una questione: la divisione sessuale del lavoro.
Dopo mezzo secolo di incremento della partecipazione femminile al lavoro retribuito, il tema più generale della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra lavoro per il mercato e lavoro domestico di cura. Noi abbiamo detto che bisognava ridiscutere questa separazione. Ci siamo riuscite.
Diciamo che è ora di riconoscere nessi, interdipendenze e ordine di priorità tra queste diverse componenti del lavoro umano. Non vogliamo più sentire parlare di lavoro, tempi e organizzazione del lavoro, welfare e crescita, e nemmeno di lotte dei lavoratori, senza riconoscere che il lavoro di riproduzione e manutenzione dell’esistenza umana è componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere.
Oppure vogliamo lasciare che tutto ciò sia colonizzato dal neoliberismo onnivoro? Che l’abbia vinta il bio-capitalismo nel suo intento di mettere al lavoro e trarre profitto dalle vite intere? No, se si ha a disposizione una pratica e una teoria che permette di contrattaccare. Qui mi riferisco anche al Sottosopra “Immagina che il lavoro” pubblicato dal gruppo lavoro della Libreria.
Cito a questo proposito il sociologo francese Alain Touraine nel libro Il mondo è delle donne (2006) che dice: «le donne come attrici collettive creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con gli altri attori sociali… in altre parole costruiscono se stesse riparando ciò che è stato smembrato dalla globalizzazione, dall’esposizione alla deriva delle forze di mercato».
Si tratta dunque di riconoscere che non è più possibile pensare di modificare i rapporti di produzione – e i rapporti sociali che ne derivano – senza pensarli insieme a quelli di riproduzione.
Una tra le conseguenze del grande incremento dell’occupazione femminile ha attirato l’attenzione delle sindacaliste, delle studiose e degli studiosi più attenti, vale a dire che soggettività e relazioni, passione e affettività, sforzo per tenere insieme vita e lavoro, sono diventate risorse fondamentali nel mondo del lavoro oggi. Il sindacato non può ignorarlo.
È una risorsa per il sindacato. Come osserva acutamente Pamela, una delle metalmeccaniche che parlano nel libro di Loriana Lucciarini: «il mio punto di vista è diventato una risorsa».
Alla presa di coscienza delle donne nel lavoro si è risposto, da parte della sinistra, enfatizzando solo la condizione svantaggiata delle donne e fissando l’obiettivo della parità con gli uomini. Da qui una visione impoverita del movimento delle donne.
Concludo con una domanda politica. Nel contesto del fordismo, nel glorioso trentennio di lotta e di elaborazione, le donne erano poche e, per quanto attiene ai loro interessi pratici e simbolici, quasi mute. Ma oggi le donne vogliono esserci nel lavoro tutte intere e questo significa un intreccio inedito tra vita e lavoro, un intreccio che riguarda tutti, uomini e donne. Ci si vuole misurare con questa differenza, che è la presenza femminile, che vuole dire anche contrattare in modo diverso? E in epoca di neoliberismo, in un contesto radicalmente cambiato, accettate la novità e cioè che le donne possano portare nella lotta sindacale un nuovo protagonismo più radicato nelle vite materiali di tutti, uomini e donne?
(www.libreriadelledonne.it, 5 dicembre 2019)