Domenico Starnone
Scuola, scuola, scuola, invoca giustamente Fioroni insieme a Galimberti. Ma il ministro davvero pensa di ricevere una risposta non fiacca, qualcosa in più di uno svogliato «presente»? Fino a ieri il suo governo non ha fatto niente per dimostrarci che senza una scuola pubblica di qualità non c’è problema che possa essere risolto.
Ci ha lasciati invece dentro una triste vecchia oscillazione: un giorno constatiamo più o meno fondatamente che la scuola è un disastro ma non ci sono soldi; il giorno dopo la consideriamo un recinto magico dove l’orrore del mondo di fuori, grazie a un po’ di letture narrativo-poetiche, a qualche esercizio di matematica, a un po’ di temi riflessivi e autoriflessivi, si smacchia e si muta in buone maniere e buoni sentimenti, competenza disciplinare, rispetto per l’altro, un giusto e vero pensare.
Frottole. Un’occasione al massimo per istituire tavoli a tempo perso, aprire sportelli e portali molto propositivi. Com’è possibile che la scuola di cui il giorno prima si legge che gli insegnanti, fatti salvi i felici pochi, sono qualunquisti e ignoranti, l’edilizia fa pena, mancano i soldi pure per i gessetti, il bullismo imperversa, nei cessi si beve birra a garganella e si sfumacchia, i dirigenti scolastici non sono in grado di dirigere nemmeno se stessi eccetera, eserciti il giorno dopo una funzione salvifica? Mettiamoci d’accordo. O si è convinti che la scuola va bene com’è, basta chiedere a docenti e dirigenti di fare il loro lavoro come del resto già fanno; e allora è giusto affidarle la soluzione dei problemi di Napoli, l’estinzione della tendenza belluina a schiacciare il più debole, la fine del razzismo e di tutto l’altro che quotidianamente ci angoscia come genitori e ci fa un baffo come cittadini competitori, cinici e guerrafondai. Oppure la scuola ha bisogno di essere ripensata a partire da quello che accade nelle classi, dietro la porta chiusa, e fin su in cima al ministero; e allora non bisogna gridare scuola scuola scuola e prendersela coi videotelefonini e istituire tavoli, ma fare, fare, fare, bene e subito. A meno che non si creda che i mali stranoti dell’istituzione si curino con i buoni propositi e le invocazioni rituali.