Ida Dominijanni
All’ingresso negli anni venti del secolo scorso furono le flapper, donne giovani, indipendenti e anticonformiste, a imprimere il segno della gioia di vivere su un decennio che si sarebbe poi colorato di tinte funeree. Finita la grande guerra che le aveva emancipate forzosamente mettendole al lavoro al posto degli uomini spediti al fronte, scorciarono le gonne, si tagliarono i capelli e decisero che era venuto il momento di invadere la città e di godersi la vita, a costo di scandalizzare tutti i benpensanti dell’occidente che con quel termine, flapper, le stigmatizzavano come ragazzine di troppo facili costumi. Cominciava così, fra il gioco e la necessità, quella mutazione della specie che avrebbe smantellato il monopolio maschile della felicità pubblica e che da allora in poi non si è mai arrestata, dilagando dall’occidente a tutte le latitudini del pianeta.
Un secolo dopo delle flapper non c’è più bisogno: le cattive ragazze sono dappertutto, con gli orli e i capelli corti o lunghi, con desideri espliciti e ambizioni autorizzate, anche se la specie non ha ancora fatto i conti con questa mutazione e non manca di resisterle. Eppure sono di nuovo le donne a dare il segno del mutamento e della felicità pubblica a un passaggio di decennio per lo più marcato dall’incertezza e da passioni tristi.
I decenni, si sa, sono come il bicchiere del proverbio: li si può vedere mezzi vuoti o mezzi pieni. Di quello che sta per chiudersi è più facile enumerare i vuoti che i pieni, i moti retrogradi che gli sprazzi di futuro, i capovolgimenti inattesi che le promesse mantenute. Anche stavolta, intanto, c’è stata una grande guerra, non militare ma economica, con il suo corredo di morti, feriti, azzoppati, declassati, impoveriti, illividiti; qui in Europa non ne siamo ancora fuori, tanto meno in Italia, ed è pressoché certo che qui le cose non torneranno mai più com’erano prima e altrove chissà, se alla crisi economica aggiungiamo quella ambientale che toglie il respiro anche a quelle parti della terra dove il motore della crescita gira vorticosamente.
C’è una crisi demografica, che precipita l’Europa in una vecchiaia senza ritorno a meno che non apra ai popoli che vengono dal sud quelle porte che oggi si ostina a tenere chiuse. C’è una crisi democratica, che capovolge in rancore l’illusione che la democrazia avrebbe messo tutto il mondo a regime e ne scombina tutti i piani, con capi impresentabili che spuntano ovunque e popoli gregari che ne inseguono false promesse e velleità di potenza. C’è una crisi tecnologica, anche qui con un rovesciamento del miraggio egualitario della rete nella presa d’atto dei suoi dispositivi gerarchici di sorveglianza, controllo, estrazione di lavoro e di valore. C’è una crisi, perfino, epistemologica, con l’appannarsi del confine fra vero e falso, informazione e fake news, lumi della ragione e buio delle credenze, che erode il nocciolo stesso dell’autodeterminazione e ci mette tutti nella condizione dell’angelo di Benjamin, con il futuro alle spalle e il progresso ridotto a una montagna di macerie. E potremmo chiuderla qui, con l’immagine di un decennio avvolto nella parola “crisi” variamente declinata ma riassumibile sotto il nome di crisi del neoliberalismo, e senza che se ne vedano le soluzioni o l’uscita.
Eppure, il bicchiere si può rovesciare, come fa Rebecca Solnit sul Guardian, invitandoci a guardare le cose da un’altra prospettiva. Perché proprio questa infilata di crisi ci ha aperto gli occhi, trasformando la disillusione non sempre in rancore, paura e nostalgia ma anche in rivolta, resistenza, immaginazione del futuro. Guardato da questa prospettiva, il decennio è attraversato da un filo rosso di movimenti che non smettono di ripresentarsi da ogni parte del mondo: Occupy Wall street, le primavere arabe, Black lives matter, il movimento sul cambiamento climatico dall’Artico all’Equatore, le piazze gremite degli ultimi mesi in America Latina, i gilet gialli in Francia. E il femminismo di ultima generazione dappertutto, dal Cile al Messico, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Europa all’India, dal Pakistan al Kenia, e da Hollywood alle periferie più sofferenti: una rivolta dentro la rivolta, come da sempre il femminismo si presenta, ad ammonire che non c’è ribellione contro la finanza, contro il capitalismo delle piattaforme, contro i dittatori, contro le polizie, contro i fondamentalismi, contro il razzismo, contro lo sfruttamento mortifero della natura, che non passi per lo smantellamento delle strutture profonde del dominio sessuale e per la tessitura di una diversa trama dell’io, del noi, delle relazioni umane. Non c’è uscita dalla razionalità neoliberale, che ha ridisegnato l’antropologia politica del mondo mettendo sul trono un individuo tanto proprietario, narcisista e competitivo quanto deprivato, isolato e infelice, senza ritessere la trama delle alleanze intersezionali fra quante e quanti in quell’individuo non si riconoscono.
Conosciamo le obiezioni: questi movimenti spuntano e passano, non vincono, sono poca cosa rispetto alle torsioni verso destra dei popoli e degli elettorati. Ma i movimenti non vincono le elezioni, cambiano la testa e il cuore di chi li fa e di chi ne è contagiato; scavano in profondità, aprono l’immaginazione del presente e del futuro, rimettono al mondo la felicità pubblica dove imperano le passioni tristi; rilanciano il desiderio di politica dove la politica costituita agonizza; modificano, appunto, la prospettiva. Sotto questa prospettiva, la visione del decennio cambia: l’infilata delle crisi diventa un generatore imprevedibile di soggettività, e l’icona che meglio la condensa è quella di un maschio bianco impaurito che pretende di tornare sovrano erigendo barriere e confini circondato da una moltitudine di donne che glielo impediscono. Trump e il Metoo, Salvini e Carola Rackete, Putin e Olga Misik, i potenti della terra e Greta: cartoline da un decennio niente male.
Oggetto privilegiato di addomesticamento del neoliberalismo, le donne ne sono diventate la principale spina nel fianco, le frontwomen di una rivolta che i media mainstream riducono alla conta delle presidenze e delle onorificenze femminili ma che ha per posta in gioco un cambio di civiltà. Non ci sono tetti di cristallo da rompere ma basi sociali da ricostruire. Il gioco, nel decennio che verrà, si farà certamente più duro se non tragico come un secolo fa, ma giocato dalla parte giusta si annuncia anche gravido di buone promesse.
(Internazionale, 31/12/2019)