Massimo Pisa
Ferdinando ci tiene e se prende soltanto “distinto” chiede il perché. Mitai sfarfalla, pensa alle figurine, se gli chiedi dov’ è il quaderno sbuffa. Wang ti guarda interrogativo, parla pochissimo, ma se lo interroghi sull’ area della circonferenza te la calcola in un attimo. Samira sta attenta a mensa e se trova un computer, ci s’ incolla. Compagni di classe. Insieme a Luca, Chiara, Jerry e Betta. Bolivia e Italia, Cina ed Egitto, Sri Lanka e Filippine. Mischiato tutto insieme in due quarte elementari, quelle della maestra Gilda. Gilda Antenucci, 55 anni, al plesso scolastico di via Russo insegna da venticinque, e con i figli dell’ immigrazione ha imparato da tempo a comunicare, ascoltare, giocare. «Il primo nucleo grosso – racconta – era cinese. Qui, nella zona di via Padova, si insediarono una trentina d’ anni fa, cercavano altri spazi oltre Chinatown. Cominciammo con i loro bambini». Ora, gli stranieri sono la metà della popolazione dei due plessi di via Russo e via Cesalpino. Di più: tre bimbi su quattro nelle nuove prime. Sud America, Africa e Oriente. «Naturalmente i bimbi di lingua spagnola fanno meno fatica – spiega la maestra – l’ italiano cominciano a capirlo presto, così come i rom. Negli ultimi anni bambine e bambini romeni stanno aumentando di numero, arrivano dal campo nomadi di via Idro o dalla Casa della carità di don Colmegna. Hanno delle difficoltà anche loro, naturalmente, ma adesso le loro famiglie tendono a diventare stanziali e il loro radicamento più forte. La lingua la imitano, la capiscono, la parlano. Il problema è fargliela scrivere correttamente». Il muro più spesso è con i piccoli cinesi e filippini. «Fanno fatica – continua la signora Antenucci – sempre per il motivo della lingua. I bimbi filippini però sono seri, disciplinati, ci tengono molto e sono bravi con la matita in mano. Pensi, la prima della classe, in una delle due quarte, è una bambina che in prima non spiccicava una parola d’ italiano. Ognuno ha la sua materia preferita». Convivere, gestire la miscela di pelle e lingua, può creare difficoltà continue, anche se gli stranieri – come ti dicono qui – vengono considerati «come una risorsa e non un problema». Gli arrivi ad anno in corso, ad esempio, sono imprevisti di delicata soluzione: «L’ anno scorso, tra le due classi – sospira la maestra – gli inserimenti sono stati venticinque. Spesso con bambine che non parlavano italiano. E lì devi ripartire da capo, rallentare col programma, assorbire lentamente il nuovo arrivato». Altro ostacolo, ben più solido, è la scarsità di fondi. Che servono per pagare gli interpreti, gli insegnanti di sostegno, in una struttura che deve gestire anche portatori di handicap. «Ci arrangiamo – insiste Antenucci – ma spesso ci dobbiamo affidare al volontariato. Di maestre in pensione che ci vengono a dare una mano. Altrimenti siamo noi maestre di ruolo a doverci inventare competenze che non abbiamo. Quest’ anno avremo due insegnanti specializzati, meglio di niente ma sono pochi. Coi tagli alla scuola, purtroppo, conviviamo da anni». La lingua comune, nella piccola Babele di via Russo, la si trova coi lavori comuni: maschere africane, poesie in ideogrammi, danze orientali, linguaggi visivi e motori accessibili per tutti. O nelle feste natalizie e di fine anno, a cui partecipano anche i genitori. Si vincono diffidenze, si portano piatti della tradizione, si rompe il ghiaccio. Anche nei confronti dei genitori rom, i primi a finire sotto accusa, quando dallo zaino sparisce un astuccio o una merendina. E alla fine, il vero collante tra i banchi lo mettono i bimbi italiani: «La loro, spesso – conclude la signora Antenucci – è una vera funzione di tutoraggio. Ci danno una mano, accolgono volentieri i bimbi venuti da fuori, soprattutto se vedono che noi insegnanti siamo i primi ad accettarli. E allora, col gioco, l’ imitazione, sono i primi ad essere coinvolti nel lavoro di scambio e di apprendimento. Sono i primi maestri».