di Lucetta Scaraffia
Care amiche e cari amici,
giriamo l’intervento intitolato “Meditazione del venerdì”, pubblicato sull’ultimo numero di Una città, in cui Lucetta Scaraffia affronta il problema della crisi che attanaglia la chiesa cattolica in seguito allo scandalo della pedofilia, coperto per decenni dalle gerarchie ecclesiastiche di ogni livello. Lucetta Scaraffia ha fondato e diretto, dal 2012 al 2019, il mensile “Donne Chiesa Mondo” allegato all’Osservatore romano, la prima testimonianza di voce femminile libera in quel mondo. Nel 2019, dopo avere denunciato gli abusi sessuali sulle religiose da parte dei sacerdoti, Lucetta è stata costretta alle dimissioni insieme a tutta la redazione.
La redazione di Una città
I lettori dei vangeli sono ormai consapevoli di un fatto innegabile, ma paradossalmente rimasto per secoli ignorato: durante la Passione sono state le donne, le discepole insieme con la madre Maria, a non abbandonare Gesù, a resistere davanti allo spettacolo straziante della sua sofferenza e alla paura di venire coinvolte nella condanna. A parte l’eccezione di Giovanni. Questo legame fra le donne e la Passione è rimasto vivo nei secoli: le stigmate, segnale concreto di condivisione dell’immensa sofferenza di Gesù, sono un fenomeno quasi esclusivamente femminile. Nei secoli pare avere coinvolto solo due uomini, Francesco d’Assisi – ma su questo gli storici non sono concordi – e padre Pio. Come se le donne, più forti e lucide nel comprendere e condividere la sofferenza degli altri, fossero in grado di condividere anche quella del Figlio di Dio. Ma non si è trattato solo di una esperienza vissuta, si è risvegliata in loro anche la capacità intellettuale di coglierne la portata ontologica. Mentre la Chiesa, attraverso il lavoro teologico e giuridico dei suoi più alti esponenti, si è dedicata ad analizzare il male morale – quello che attiene alla libera scelta e alla responsabilità di ciascuno – una numerosa pattuglia di mistiche ha osato affrontare il male ontologico, quello che esiste anche se non viene attivato dall’azione umana, quello che non si può attribuire ad uno o più esseri umani. È stato solo un uomo, il mistico san Juan de la Cruz, ad attraversare questa notte oscura del male, dell’assenza di Dio. Invece questo incontro con il male inteso come notte oscura, come vuoto senza Dio, l’hanno vissuto molte mistiche come Teresa di Lisieux o, secoli prima, Hadewijch di Anversa e Margherita Porete.
Si tratta di un tema emerso con forza particolare nel Ventesimo secolo, periodo storico in cui abbiamo creato e realizzato l’inferno, un inferno così terribile da sembrare quasi senza autore, senza nome, tanto che l’abbiamo battezzato con un termine neutro, shoà. Un inferno che è emerso come impensabile, come mysterium iniquitatis. Ed è proprio in questi anni terribili, dal 1941 al 1946, che alcune donne mistiche, non tutte battezzate, hanno avuto la forza di guardarlo e di attraversarlo, ognuna in modo diverso ma tutte con la forza di chi vuole cercare e trovare Dio anche in questo buco nero, in questa notte oscura. La forza di chi non vuole vedere in questo male la morte di Dio. Per alcune di loro – Simone Weil, Etty Hillesum, Marie Noël, Edith Stein, Adrienne von Speyr, Chiara Lubich – questa capacità insieme intellettuale e visionaria è nata dall’esperienza dei riti pasquali, dalla meditazione sulla Passione. Si tratta di una condivisione della Passione che si estende dal venerdì santo al sabato santo, alla discesa agli inferi. La mistica che racconta con la maggiore consapevolezza questa esperienza, cioè che la vive come un vero e proprio accompagnamento a Gesù nella discesa agli inferi, è Adrienne von Speyr, che così lo descrive “È il mistero senza fondo del sabato santo, perché il Figlio non può cercare il Padre nell’amore, lo cerca dove non c’è. L’inferno è impensabile, Mysterium iniquitatis.”
In questi giorni di paura e di isolamento di fronte ad un male senza nome – nonostante i molti tentativi di trovare un “colpevole” del contagio – possiamo comprendere con maggiore facilità questo concetto. Oggi, se vogliamo raffigurarci un sabato santo, un segnale dell’esistenza del mysterium iniquitatis, dobbiamo pensare allo scandalo degli abusi nella chiesa. Uno scandalo che la sta corrodendo all’interno, con l’effetto di renderla impermeabile alla voce dello Spirito. Come spiega lucidamente Hanna Arendt, la menzogna consiste nella deliberata volontà di trattare verità di fatto come se fossero opinioni, e come tali trascurabili o modificabili a proprio piacimento, al fine di accreditare una teoria che con quei dati cozza. La menzogna, scrive sempre Arendt, è il grande tentativo di far tornare i conti in una realtà in cui i conti non tornano mai. In questo caso ciò che viene violato non è tanto il precetto morale, quanto il tessuto ontologico della realtà, generando effetti perversi. I provvedimenti presi sugli abusi dalla Chiesa finora non sono assolutamente sufficienti a contrastarlo, anche perché spesso non diventano prassi concreta. Il vero scandalo non sono tanto gli abusi in se stessi – come sappiamo questo tipo di abusi abominevoli si verifica anche nelle famiglie, nelle scuole, nelle società sportive… ovunque un adulto (in prevalenza di sesso maschile) può approfittare di una posizione di potere nei confronti di un essere più debole di lui – ma le modalità in cui sono stati, e purtroppo sono tuttora, coperti, manipolati, insabbiati. Questo mettere in pratica in mille modi l’ingiustizia, l’alleanza contro il debole, con l’evidente appoggio dell’istituzione stessa, ha costituito per i fedeli una scoperta terribile e sconcertante, e ha contribuito a distruggere l’immagine della Chiesa anche davanti al mondo, anche davanti a chi, pur non confessandosi cristiano, la rispettava. Si tratta di un male dilagante, ma del quale non si capiscono bene i responsabili: sono i vescovi, i regolamenti, la congregazione della fede, o un clima generale di rilassamento morale? Si tratta di un male grave che si allarga a macchia d’olio, che produce altro male attraverso la fondata certezza di godere dell’impunità, un male che proprio per la sua vastità e la sua indeterminatezza è difficile da sradicare. Non basta cercare di far risalire il piatto della bilancia mettendo in evidenza tutto il bene che fa la Chiesa: fare del bene è la sua stessa ragione di esistere, la normalità, non può essere considerato un merito. Il cristianesimo è costruito sulla memoria e l’esempio della vittima per eccellenza, Gesù: non può mettere a tacere la voce delle vittime, pena la caduta in una totale perdita di credibilità. Quello che può essere compreso, e finanche alla fine perdonato, se si tratta dell’errore di un singolo, non lo può più essere per un’istituzione speciale come la Chiesa. La fragilità umana, la debolezza, la caduta che possono essere perdonate di fronte ad un vero pentimento, non hanno nulla a che vedere con il comportamento tollerato per lungo periodo – anzi, ad essere sinceri suggerito se non imposto – da una istituzione. Ormai è evidente che gli abusi sui minori sono stati in larga misura coperti dall’istituzione Chiesa anche quando denunciati, con operazioni di depistaggio, corruzione, e spesso anche vere e proprie minacce. E che ancora adesso, per esempio, se pure papa Francesco ha abolito il segreto pontificio sugli atti relativi a queste denunce, la Congregazione della dottrina della fede non concede l’accesso alla documentazione, neppure agli avvocati di parte. Anche un documento che avrebbe dovuto chiarire una volta per tutte, almeno per l’Italia, il cambiamento del comportamento che le gerarchie ecclesiastiche dovrebbero tenere di fronte alle denunce di abuso elaborato dalla Cei, le “Linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili”, è ancora vago e poco convincente. Per prima cosa, come dice la stessa introduzione al documento, queste linee non hanno valore giuridico vincolante: per averlo avrebbero dovuto ottenere il voto favorevole di due terzi dell’assemblea dei vescovi, ed evidentemente se questa votazione non c’è stata è perché c’erano seri motivi per prevedere che non l’avrebbero ottenuto. Più che un testo fondato su proposte normative nei confronti delle denunce, è un testo che parla di prevenzione, ascolto e accoglienza, riconciliazione. Il ricorso alla giustizia civile – se pure non ostacolato – viene invocato apertamente solo in una circostanza specifica, quella delle false accuse di abuso contro un prete. La parola donne non è pronunciata; si parla solo di minori – e giocoforza, lì la denuncia scatta d’ufficio – e di persone vulnerabili, cioè “in stato di infermità”. Una parte non piccola del documento è dedicata all’accompagnamento degli abusatori, per i quali l’attenzione è più alta che nei confronti delle vittime. Puntate qua e là sono rivolte contro i mezzi di comunicazione “talvolta usati in maniera strumentale contro la chiesa”, senza ricordare che è proprio grazie ai mezzi di comunicazione che sono finalmente emersi scandali occultati dalle gerarchie ecclesiastiche, come ha ricordato lo stesso papa Francesco. È evidente che siamo ancora lontani dalla pratica di una vera giustizia nei confronti delle vittime, e che soprattutto tutte le iniziative avviate dalla Chiesa per fare chiarezza non prendono mai in considerazione i vescovi, come se abusi e affossamenti fossero solo responsabilità dei semplici sacerdoti. Vorrei ricordare che proprio su quest’ultimo punto una vittima, Marie Collins, ha dato le dimissioni dalla commissione sugli abusi voluta da Francesco e presieduta dal cardinale O’Malley… La situazione è ancora più confusa e inquietante quando si tratta di donne abusate, per lo più religiose. Il numero di questi abusi è molto alto, non si tratta di qualche “mela marcia”, ma di un sistema strutturale in alcune parti del mondo, e non solo nei continenti in cui la condizione della donna è disastrosa come l’Africa e l’Asia. I sacerdoti sanno di avere l’impunità praticamente assicurata: le denunce che arrivano nei vari organismi vaticani non vengono neppure aperte, ma classificate sotto la dizione di “relazioni romantiche” e lasciate lì a coprirsi di polvere. Raramente le suore hanno la forza e il coraggio e anche i soldi per trovarsi un avvocato e denunciare l’abusatore presso la giustizia civile: qui comunque inizia un altro calvario, perché non sono dei minori, quindi devono provare l’accusa in un ambiente che parte già dal pregiudizio nei loro confronti. Tutti sembrano considerarle infrazioni contro il voto di castità piuttosto che un abuso sessuale e di potere, pronti a guardare con indulgenza i violenti colpevoli solo, agli occhi di molti, di non avere resistito alla condizione di vita asessuata che avevano scelto.
La questione degli abusi sessuali sulle donne – soprattutto religiose – è molto diversa da quella sui minori, molto più difficile da definire, più scivolosa perché si presta con facilità ad essere classificata come relazione consenziente, come semplice trasgressione al voto di castità. Proprio per questo, e poi perché l’istituzione da lungo tempo è abituata a tacitare con facilità le donne che si ribellano, le reazioni alle denunce sono così clamorosamente spietate, vera prova di forza di un potere sicuro di non venire mai smascherato. Le vittime sono sempre scelte fra le donne più deboli, numerose anche fra le religiose, e i religiosi sono loro confessori, loro superiori gerarchici, perfino loro psicologi. Nelle parole delle religiose, quando raccontano la vicenda di cui sono state vittime, il termine ricorrente è paura: sentono la forza del potere di una istituzione che è pronta a schiacciarle, e di un uomo che di solito risulta stimatissimo e apprezzatissimo nel suo ambiente, che purtroppo è anche il loro. Un uomo che per di più si propone come brillante intellettuale in un deserto culturale quale è quello della chiesa di oggi. Un esempio clamoroso e molto recente è quello di Jean Vanier. Il resoconto di una religiosa vittima che ho conosciuto è straziante: sporge denuncia canonica, ma per decidere se dare seguito all’inchiesta è sottoposta a un interrogatorio stringente da parte di tre vescovi. Una povera suora che forse non aveva mai visto tre vescovi in una volta deve raccontare fatti privati e vergognosi davanti a loro: nella Chiesa la regola, ormai praticata nei tribunali di tutto il mondo civile, per cui una donna violentata deve essere interrogata da una donna, non esiste. La reazione dei tre vescovi al racconto della suora è, a dir poco, stupefacente: “Cosa vuole, lui era innamorato… per quello si è comportato così, bisogna perdonare la sua debolezza”. Vorrei sottolineare che qui la debolezza protetta è quella dell’abusatore. Pensando forse che la suora, paga del fatto di essere riconosciuta degna di innamoramento da parte del potente religioso, avrebbe desistito. La povera donna, invece, ha capito di essere stata giocata, ma è ripiombata in una condizione di disperazione, convinta che per lei non ci sia alcuna possibilità di ottenere giustizia. Di fatto le religiose vittime sono costrette a tornare nel silenzio, avvolte dalla paura e dal dolore. Il loro tentativo di liberare la parola, di denunciare pubblicamente l’abuso a cui sono state sottoposte, finisce quasi sempre nel nulla e questo non fa che confermarle nella loro sensazione di impotenza, nel senso primario per cui le loro parole possono essere sconfessate dai potenti, che non vogliono che vengano ascoltate. La loro è una storia di abuso di potere da parte di un uomo che, per professione, ha saputo capire che erano vittime predestinate: la loro sete di amore era tale da non guardare alla qualità di ciò che veniva offerto. Mi ha colpita soprattutto la frase di una delle vittime: “Mi ha mandato una mail con gli auguri di compleanno. Non avevo mai ricevuto auguri di compleanno”. Le vittime non hanno confidenza con concetti come “predatore sessuale” o “perverso narcisista”; il seduttore maneggia le parole con una maestrìa che a loro manca completamente. Non si possono difendere. Proprio per questo, nel loro caso come in moltissimi casi in cui sono coinvolti sacerdoti o religiosi, l’abuso sessuale si presenta in modo insidioso, senza che se ne abbia chiara coscienza. È chiaramente il caso di abuso di una persona vulnerabile, e proprio per questo sono esperienze per cui la nozione di consenso va rivista, riesaminata. Se la vittima viene fatta sentire una prescelta, come può capire che è stata abusata anche se ha dato il consenso? Poi i danni saranno spaventosi, vite intere e vocazioni saranno rovinate, ma certo nessun uomo consacrato pagherà il prezzo di questo massacro umano. Davanti a questa penosa situazione, la risposta del tribunale canonico e di quello civile purtroppo in molti casi è simile: negare la vulnerabilità della vittima per rendere attendibile il consenso. Una posizione indegna soprattutto della Chiesa, che non fa che difendere – a parole – gli emarginati, i più fragili, “gli scarti”. Ma nelle donne abusate questa vulnerabilità non trova riconoscimento: le donne ritornano le tentatrici, lo strumento di Satana, capaci di far perdere la testa anche a rispettabili religiosi, che per questo vanno perdonati. La parola delle donne, lo sappiamo, non viene mai ascoltata dalle gerarchie ecclesiastiche, né quando discutono del futuro della Chiesa né quando avviano un piccolo processo per esaminare i candidati all’episcopato, e questa assenza oggi risulta veramente grave e inspiegabile, anche perché non è assolutamente giustificabile con le norme del diritto canonico. Certo, ci sono le tradizioni e le inveterate abitudini di potere, ma viene anche un sospetto: se si desse finalmente valore e autorità alla parola delle donne, nel contesto dell’apostolato ad esempio, come si potrebbe negare ogni attendibilità e valore alle religiose che denunciano gli abusi? Narrare queste storie, meditare su queste tragiche realtà, ha un senso. Siamo di fronte a trasgressioni morali di singoli individui, che però sono diventate un sistema occultato e quindi nutrito dall’impunità e dal silenzio, siamo di fronte a un male che esiste di per sé, che avvelena la chiesa dall’interno. Dobbiamo rendercene conto, dobbiamo ripercorrerlo, perché questa è l’unica via per uscirne. Come scrive il filosofo Roberto Esposito, per rovesciare il male, da lui identificato nell’ideologia nazista, per rigettarlo nell’inferno da cui è uscito “bisogna riattraversare consapevolmente quelle tenebre, rispondere, naturalmente in maniera opposta, a quanto allora fu fatto, alle domande che da esse si levano”.
Simone Weil insegna ad affrontare il male osservandolo con attenzione, Arendt scrive che è il pensiero che ci dà un metodo per stare in rapporto con il male, senza assumerlo e senza identificarsi in esso. E riassume il male con una frase fortissima: è l’incapacità di pensare dal punto di vista di un altro. Nel caso esaminato, incapacità di pensare dal punto di vista delle vittime, peccato capitale per un cristiano. La parola delle donne non viene ascoltata neppure quando progetta e realizza il bene. Perché accanto a queste storie di oppressione ci sono anche tante storie di libertà creatrice che vedono protagoniste le religiose, quelle che si muovono in uno spazio separato da quello del clero e quindi sono libere di inventare e vivere nuovi progetti di evangelizzazione. Ve ne racconto uno, uno solo, che è un grande successo di cui pare quasi che la Chiesa istituzionale non si renda conto. Dieci anni fa è nata l’associazione Thalita Kum, una organizzazione internazionale creata per contrastare la tratta degli esseri umani, in particolare donne, e che ha dato prova di grande efficacia. Oggi la rete raggruppa oltre duemila donne consacrate ed è presente in 77 paesi dei cinque continenti. Nel giugno 2019 Talitha Kum – rappresentata da suor Gabriella Bottani, comboniana italiana coordinatrice mondiale della rete – ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti internazionali, il premio Trafficking in Persons Report Hero (“eroe contro la tratta delle persone”), consegnatole dal segretario di stato americano Mike Pompeo. La notizia di questo prestigioso riconoscimento è stata data durante la conferenza stampa della Uisg (Unione internazionale delle Superiori generali, ndr) dedicata a Talitha Kum: nessuno dei numerosi personaggi che si occupano di comunicazione in Vaticano ha mai pensato che fosse una notizia da diffondere nel mondo, che fosse utile a migliorare l’immagine della Chiesa. Per loro le donne non fanno parte della Chiesa, quello che conta è solo la gerarchia maschile. Le suore, in contatto fra loro nelle diverse parti del mondo, hanno cominciato a portare soccorso alle vittime e ad ascoltarle: grazie alle informazioni raccolte e messe in circolazione, sono riuscite a ricostruire i fili e le modalità di azione che sovraintendono a questo mercato di esseri umani con una chiarezza e una lucidità che manca a chi – alti prelati e nunzi – si limita a intrattenere contatti con le sfere del potere, in genere corrotte. Anche la tratta è un esempio di male totale, della quale non è possibile rintracciare tutti i veri responsabili, le vere cause, le complicità. È un esempio del mysterium iniquitatis di cui in qualche modo facciamo parte tutti: non solo il circa un milione di italiani che è cliente delle prostitute, ma anche di chi come noi le vede per le strade e passa oltre, di chi sopporta di mangiare pomodori raccolti da schiavi. Di chi, in sostanza, chiude gli occhi per non essere turbato nella sua vita quotidiana. Le religiose invece tengono occhi e orecchie aperti, raccolgono mille notizie e le trasformano in piani di salvezza. Soprattutto tengono il cuore aperto davanti alla sofferenza, se ne fanno carico. Lavorando sul territorio, hanno elaborato modalità di intervento efficaci che si basano sul coinvolgimento dei poteri locali, che possono controllare da vicino. Il loro progetto si è rivelato molto più realistico e più capace d’incidere sulla realtà di quelli avviati dagli organismi vaticani che si occupano istituzionalmente di questo dramma, anche se provvisti di finanziamenti e di una numerosa burocrazia. Ma neppure questo innegabile successo ha dato finora luogo a un ascolto di questa esperienza da parte delle gerarchie ecclesiastiche, per imparare uno stile di intervento che si è rivelato indubbiamente efficace. In occasione della prima assemblea generale di Talitha Kum, nel settembre del 2019, l’associazione ha deciso di premiare dieci religiose, provenienti da vari continenti, che hanno contribuito fin dall’origine al successo dell’iniziativa. Le premiate – Patricia Ebylulem, nigeriana; Agnes Kaulaye Trispa, tailandese; Jyoti Pinto, indiana; Eugenia Bonetti, italiana; María Isabel Chávez Figueroa, peruviana; Nicole Rivard, canadese; Ann Scholz, statunitense; Jamise Neary, dell’Oceania; Bernardette Sangma, indiana, alla memoria; Estrella Castaloner, filippina, alla memoria – vedono ancora una volta riconosciuti i loro meriti solo all’interno del mondo femminile. L’istituzione ecclesiastica guarda da un’altra parte, è assente davanti all’importanza e all’urgenza del loro riconoscimento. Le suore lavorano bene, ma come al solito in un mondo separato, come se non facessero parte veramente dell’istituzione. Questa mancanza di vera collaborazione costituisce una perdita grave per l’istituzione ecclesiastica, perché si trova così relegata nel suo mondo autoreferenziale di potere e di burocrazia, di carriere e di privilegi, in un meccanismo senza sbocchi e che di fatto finisce nell’indifferenza di fronte a una realtà così tragica. Come vedete, le donne oggi stanno al cuore della chiesa, come vittime e come salvatrici di una istituzione in crisi profonda: solo loro, ribellandosi all’ingiustizia, possono ripulire la Chiesa dal male interno che la travaglia, solo loro hanno la freschezza creativa di chi sa indicare nuovi cammini.