di Ida Dominijanni
È stata solo un sogno, un miraggio, o forse l’esplosione di un desiderio collettivo, la reazione che all’apparire del Coronavirus ha portato tante e tanti a dare per morto il capitalismo neoliberale? Quel virus biologico, spuntato non si sa ancora esattamente come e da dove, non sapevamo ancora bene quanta malattia e quanta morte avrebbe seminato, ma si capiva fin da subito che aveva la capacità di hackerare in un attimo, come un virus informatico, il sistema – produttivo, ambientale, sanitario, comunicativo – che l’aveva generato. Un microrganismo sconosciuto e tutto è andato in tilt: i sistemi sanitari devastati dai tagli alla spesa pubblica e perciò incapaci di fronteggiare l’emergenza, le linee aeree che prima scorrazzavano per il mondo globale costrette a fermarsi, le filiere della produzione di beni superflui costrette a interrompersi, i guru della finanza sovranazionale incapaci per una volta di fare previsioni, l’inquinamento, perfino, sospeso per lockdown.
Più niente sarà come prima, se n’era dedotto dando per scontato che tutto sarebbe stato meglio di prima. Invece no: tutto si avvia a tornare come prima, se non peggio di prima. Una ripartenza senza rinascita, come suggerisce Via Dogana. E senza ragionevolezza, aggiungo io. L’emergenza essendo stata sanitaria, la fragilità numero uno essendo stata quella del sistema sanitario, la risorsa numero uno essendo stata quella cura del vivente (negli ospedali, nelle case, nell’insegnamento a distanza, ma anche nei campi, nei supermercati, nelle consegne a domicilio) che ci ha mantenuti sani e salvi, sarebbe stato ragionevole “ripartire” appunto da qui: ricostruire un sistema sanitario nazionale universalistico, reinventare il welfare, mettere al mondo quella “società della cura” che scardina il primato della produzione sulla riproduzione e archivia l’etica della prestazione e della concorrenza. Invece no, si riparte dalle ragioni della produzione (di beni che nessuno comprerà) e del profitto sostenute a gran voce da Confindustria, il sistema sanitario resta com’è e per giunta senza neanche l’ombra delle “tre T” che servirebbero per domare davvero l’epidemia, il welfare resta una parola d’altri tempi, il lavoro di cura (femminile) resta senza riconoscimento e senza investimento. Come dice un mio maestro, historia non facit saltus: la storia si ripete, è solo la politica che può introdurre una discontinuità in questa ripetizione. Perché non ci sia ripartenza ma rinascita, perché dal crudele avvertimento della pandemia non si esca col ripristino di ciò che l’ha generata ma con un salto di civiltà, ci vorrà molta politica, e molto conflitto.
Perché le donne siano centrali in questo salto auspicabile e in questo conflitto inevitabile l’ho scritto con altre amiche su questo stesso sito (Salto della specie, http://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/salto-della-specie/), e per brevità non lo ripeto qui. Vorrei piuttosto ragionare sui guadagni della contingenza-virus (preferisco chiamarla così piuttosto che emergenza, termine carico di troppi significati preconcetti) che possono essere rilanciati politicamente, e sulle pratiche da attivare per fare quel lavoro di elaborazione dell’accaduto che sta a cavallo fra corpo e parola e che nessun altro farà se non lo facciamo noi.
Il guadagno della contingenza-virus sta a mio avviso in uno spostamento della soggettività che si è verificato nel contagio, quando ci siamo sentiti ciascuno/a per l’altro/a, contemporaneamente, salvezza e minaccia, portatori intenzionali di cura o potenziali di infezione, soggetti e oggetti dunque di affetti di segno opposto e indecidibile, che non sono solo nelle nostre mani ma anche in quelle del caso. È stata, è, una sorta di epifania della relazionalità del soggetto, una relazionalità non solo elettiva ma costitutiva che destabilizza l’io, lo sdoppia e lo raddoppia, ne rende porosi i confini, lo altera investendolo dell’alterità dell’altro. Per noi non è certo una novità: la relazionalità del soggetto è un caposaldo del pensiero e della pratica femminista, e in particolare Judith Butler, nei suoi scritti successivi all’11 settembre, ha messo a fuoco questa alterazione dell’io che deriva dalla sua esposizione tanto alla cura quanto alla violenza dell’altro. Ma a me pare che questa alterazione sia diventata, nel contagio, un’esperienza generalizzata e condivisa, una percezione profonda e diffusa capace di modificare il sentire e l’inconscio individuale e sociale, con effetti etici e politici di prima grandezza. Non solo nella prospettiva della società della cura, che nell’essere-per-l’altro del soggetto relazionale ha ovviamente il suo presupposto. Ma anche per i riflessi sulla concezione e la pratica della libertà, che com’è sempre più chiaro è il nocciolo del conflitto sociale che si va delineando in Italia e altrove, un conflitto in cui si fronteggiano e si fronteggeranno, ancora una volta e con espressioni più aspre ed estreme che in passato, la concezione neoliberale di una libertà egocentrata, proprietaria, orientata dal codice economico, e quella di una libertà relazionale, guadagnata politicamente, orientata dalla negoziazione fra sé e l’altro.
Proiettato sul grande schermo della scena politica nazionale e internazionale come scontro fra le destre populiste, industrialiste, suprematiste e antistataliste (l’ultima dagli Usa è la protesta libertarian “No Mask”) da un lato e dall’altro le alleanze sociali e politiche che si stanno costruendo attorno alla tutela della salute, alle pratiche della cura, al ripensamento delle funzioni dello Stato e alla produzione del comune, questo conflitto ha già contrassegnato il vissuto personale della pandemia e del lockdown secondo linee non sempre scontate o prevedibili, e probabilmente riconducibili all’esperienza singolare di ciascuna/o. Voglio dire che se anche nelle comunità intellettuali e politiche che prima della pandemia erano relativamente omogenee ci siamo poi trovate/i a dividerci sul tasso di pericolosità effettivo del coronavirus, sul lockdown come provvedimento autoritario imposto dall’alto o viceversa come pratica di autotutela voluta dal basso, sui tempi e le priorità della “riapertura”, queste divisioni hanno probabilmente a che fare con differenze non tanto o non solo ideologiche ma soprattutto esperienziali, che andrebbero raccontate e confrontate. Di che cosa abbiamo o non abbiamo avuto paura all’apparire del virus? Di chi abbiamo o non abbiamo dovuto o voluto prenderci cura? Con chi abbiamo vissuto durante il lockdown? Chi abbiamo voluto tutelare dal rischio, prima o oltre che noi stesse? Chi e che cosa abbiamo ritenuto che dovesse essere prioritariamente tutelato da parte delle istituzioni? Il confine cruciale che passa fra la rivendicazione della libertà di movimento personale e la rinuncia volontaria alla libertà di mettere a rischio gli altri passa, io credo, attraverso questi dati dell’esperienza singolare, che andrebbero raccontati e confrontati.
Entro da qui in quel lavoro al confine fra corpo e parola che dicevo sopra e che credo spetti a noi fare. L’evento-coronavirus non è stato – non è – soltanto un evento biologico, sanitario, sociale, economico, biopolitico. È stato ed è anche, e in primo luogo, un evento sensoriale, percettivo, emozionale; un evento dell’immaginario e dell’inconscio. Un’alluvione di diari della pandemia ci è piovuta sulla testa dalle pagine dei giornali, dai talk televisivi, dagli instant book già scaduti catapultati nelle librerie prim’ancora che riaprissero: diari talvolta sinceri e spiazzanti, talvolta obbedienti alle regole non scritte della narrazione mediatica mainstream, carica di buoni sentimenti, buoni propositi, buoni valori, buone maniere, abitata sempre da famiglie regolari, animata da una pedagogia fra lo sdolcinato e il paternalista. Niente mi ha colpita più delle rare testimonianze dirette della malattia, il racconto di chi è arrivato in ospedale dopo settimane di febbre, è stato sedato e intubato e racconta lo stato di sospensione fra vita e morte che ha attraversato. O più delle testimonianze strazianti del lutto mancato di chi ha perso qualcuno senza poterlo vedere, stringerli la mano, accompagnarlo nel rito della sepoltura.
Tuttavia molti tasselli mancano ancora. Che cosa ha evocato in noi l’apparizione di un microrganismo sconosciuto? Come lo collochiamo nel nostro modo di pensare il rapporto fra biologia e società, natura e storia? Quali fantasie ha scatenato in noi l’esplosione di una pandemia, che è di per sé una situazione totalizzante, dove non si dà più un altrove in cui scappare fisicamente o con l’immaginazione? Quali sentimenti di tutela, propria e altrui, e quali fobie, nevrosi, idiosincrasie scatena il rischio del contagio? Che cos’è il rischio del contagio di una malattia, per chi come noi ha sempre usato positivamente la metafora del contagio per connotare la diffusione spontanea della presa di pratiche politiche? Perché il Covid-19 mette tanta paura, malgrado il suo tasso di letalità relativamente basso? È una paura artatamente indotta, o ha a che fare propriamente con l’immaginario del contagio, e con le caratteristiche della malattia? Che cos’è una malattia che attacca il respiro, soffoca, e costringe a una incubazione e a una morte solitaria? Com’è cambiato dopo l’impatto con il Covid il nostro rapporto con la malattia, e con la potenza e l’impotenza della medicina? Com’è cambiato il nostro rapporto con la morte, di fronte a tante morti solitarie e senza conforto e alla morte ridotta, come nelle immagini dei camion di Bergamo, a problema di smaltimento? Quelle migliaia di morti senza funerale potranno mai davvero riposare, e non incombere sulla comunità dei viventi, se non troviamo il modo di celebrarne pubblicamente il lutto?
Ancora. Quali effetti ha questa situazione sul pensiero? Come si pensa, come si legge, come si scrive in una pandemia che è anche una infodemia, una situazione di totalitarismo mediatico in cui pare non ci sia spazio per pensare ad altro che al virus? Che cosa significa per il nostro apparato sensoriale indossare la mascherina, portare gli occhiali per non infettare gli occhi, infilare le mani nei guanti o lavarsele in continuazione? Che cosa significa smettere di toccare le amiche, gli amici, i familiari, o temere di toccare un o una amante? Che cos’è il sesso, in tempi di pandemia? Quali segnali ci ha mandato in questi mesi l’inconscio? Che cosa abbiamo sognato, che cosa sogniamo? Che cosa non vediamo l’ora di riprendere della nostra vita precedente, e che cosa non vorremmo mai più riprendere? In che cosa la nostra vita precedente ci aveva già preparati alla distanza, alla de-sensorializzazione, alla de-sessualizzazione, alla virtualizzazione delle relazioni? Quanto contavano e come parlavano i corpi prima, quanto contano e come parlano adesso? Quanto ci siamo mancate non potendoci riunire in presenza, e quanto invece ci siamo state presenti pur nella distanza?
Sono questi i dati dell’esperienza che dovremmo “tracciare”, per sottrarre l’esperienza al “governo dei numeri” e dei big data che la riduce a statistica e ad algoritmo. Qualcuna ha già cominciato a farlo: ad esempio il collettivo Anonima Sognatrici, che raccoglie in una app i sogni fatti durante la quarantena da chiunque voglia condividerli (il progetto e l’app su Erbacce del 17/5/20). E bisognerà continuare, per “ripartire” a nostra volta con quella pratica di messa in parola dell’esperienza e di sondaggio dell’inconscio che oggi più che mai vanno riattivate per significare a partire da noi l’evento-coronavirus.
Con le mie ultime due domande sono già entrata in quella che si pone Via Dogana a proposito del rapporto, o della tensione, fra i processi accelerati di informatizzazione (del lavoro, della scuola a distanza, delle riunioni sulle piattaforme, dei consumi culturali in streaming) e l’importanza irrinunciabile della corporeità, della fisicità e delle relazioni in presenza. Il tema si annuncia fra quelli che domineranno il dibattito pubblico del dopo-pandemia, perché da un lato il capitalismo farà dell’investimento tecnologico la principale leva di risparmio dei costi e di intensificazione dello sfruttamento del lavoro, dall’altro le resistenze antitecnologiche assumeranno toni sempre più apocalittici (ho appena letto l’equazione che un noto filosofo italiano stabilisce fra i docenti che oggi accettano la didattica a distanza e e quelli che nel 1931 giurarono fedeltà al fascismo).
In verità nel trattamento della pandemia io non lamento un eccesso ma semmai un deficit di dispiegamento di potenza tecnologica, visto che in tutto l’occidente (diverso è il caso di paesi come Taiwan, Singapore, Corea del Sud) non abbiamo trovato altro mezzo che quello medievale del lockdown per frenare l’avanzata del coronavirus, in barba a decenni di competenze accumulate su come isolare i virus informatici. Il tema della pervasività tecnologica va comunque articolato attentamente, senza farsi travolgere da un immaginario pregiudiziale che rischia di confondere piani ed effetti di segno diverso, e di prendere per svolte radicali processi che erano già dispiegati ben prima della pandemia (mi ha lasciato esterrefatta la diffidenza verso l’app di segnalazione e tracciamento della positività, avanzata in nome della sacralità dei dati personali da chi magari i propri dati li cede da anni su Facebook a fini commerciali). È indubbio che la pandemia sia un’ottima occasione per mettere a frutto e implementare tecnologie di sorveglianza (sovente già sperimentate contro il terrorismo) contro le quali bisognerà vigilare e forse ribellarsi. Diverso è a mio avviso il discorso per le piattaforme di condivisione a distanza. Per quanto anch’esse siano infarcite di rischi di ogni genere (commercializzazione dei dati, sfruttamento delle emozioni, de-corporeizzazione delle relazioni), non sarei onesta se non ammettessi quanto abbiano funzionato per me come alleggerimento della solitudine e di più, come potenziamento dell’intelligenza collettiva e dello scambio di informazioni, analisi, opinioni. Non è come pensare in presenza, ma è un buon sollievo dall’assenza. A ben vedere i corpi parlano, si sentono e contano anche dietro uno schermo.
(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 maggio 2020)