di Adriana Maestro
In questo tempo così difficile che abbiamo vissuto, e in parte stiamo ancora vivendo, quello che forse di più mi ha colpito è stata la repentinità con cui la nostra vita è cambiata ma soprattutto la plasticità con cui abbiamo risposto modificando completamente le nostre abitudini e l’ordine delle nostre priorità. La pandemia è stata sicuramente un “inaspettato”, anche se sappiamo bene che c’erano tutte le condizioni di preavviso, come hanno dimostrato studi qualificati (molto interessante a questo proposito l’inchiesta di Sabrina Giannini, Il virus è un boomerang, andata in onda nella puntata di Indovina che viene a cena del 29 marzo scorso su Rai 3).
Nonostante ciò, è stata un inatteso per le nostre vite, il cui grado di diffusione è stato proporzionale alla dimensione globale del nostro vivere oggi. Il fatto che le vite di tantissime donne e tantissimi uomini siano state toccate in maniera così profonda ha aperto, allo stesso tempo, uno spazio imprevisto per “ripensare” tutto. Uno spazio che non possiamo consentire che si richiuda “semplicemente”, ammesso che questo sia possibile.
Una delle cose che questa pandemia ha fatto irrompere con prepotenza ineludibile è la centralità della vita e la relazione che c’è tra vita e lavoro. In una maniera inaspettata per le nostre società, tutte improntate al produttivismo, all’efficienza, interi Paesi si sono fermati riconoscendo, di fatto, la priorità della vita rispetto all’efficienza economica.
Sicuramente, vista l’entità della posta e degli interessi in gioco, su questo crinale si sono giocate e si stanno giocando innumerevoli posizioni, sfumature, accentuazioni, opposizioni, rifiuti; così come ci sono state derive autoritarie, securitarie, sovraniste, e via dicendo e su questo bisogna naturalmente vigilare, con grande attenzione. Ma il fatto che interi Paesi abbiano scelto di fermare le loro attività per salvaguardare la vita è una cosa di una portata enorme, impensabile fino a ieri. Simbolicamente è un salto in avanti. È una affermazione dell’esperienza messa in parola dalle donne per cui la vita, fatta di relazioni, di affetti, di socialità, di parole, viene prima di tutto: primum vivere (Immagina che il lavoro – Sottosopra rosso, Libreria delle donne di Milano, 2009).
Per poterne trarre frutto, dobbiamo saperlo vedere. Altro dato significativo è che le zone più colpite sono state, almeno in Italia, quelle con un più intenso grado di “produttività”, cosa sbandierata spesso con una sorta di ottusa sicumera, quasi come il prezzo del soldato al fronte.
Non voglio star qui ad analizzare le possibili cause e interpretazioni, quello che mi interessa è che il fatto che siano state colpite prevalentemente le zone ad intensa attività ha impressionato fortemente l’immaginario di tutti. Una ferita profonda, anche simbolicamente, nel cuore pulsante del sistema produttivo e consumistico globalizzato.
Finché lo scontro tra salute e lavoro – che è una estremizzazione del conflitto tra lavoro e sfera della vita nella sua complessità – è confinato all’interno delle fabbriche o in territori determinati o riguarda le donne tra le mura domestiche o i bambini che si avvelenano scavando con le mani nelle miniere di cobalto, si tratta pur sempre di esperienze per così dire circoscritte, geograficamente e simbolicamente. Quando però il mostro invisibile può colpire chiunque, nella pancia del mondo ricco, allora la storia cambia.
Entra allora con forza nella vita di tutte e di tutti, in maniera ineludibile, la contrapposizione tra lavoro e salute, lavoro e vita, rendendo evidente l’assurdità della separazione tra mondo della produzione e mondo della vita. Contrapposizione frutto di una domanda mal posta: la scelta tra la vita e il lavoro. Mi ha sempre oltremodo stupito la maniera in cui – penso per esempio alla vicenda dell’ex-Ilva di Taranto – vengano poste in contrapposizione la salute dei lavoratori/trici, ma anche di interi territori, e la salvaguardia dei posti di lavoro. È come dire che la morte può essere un effetto collaterale del lavoro, che bisogna scegliere tra lavoro e vita. Ma che domanda è questa? Una contrapposizione del genere è possibile solo entro i confini culturali di una società che immagina il lavoro non al servizio dei bisogni delle persone, ma al servizio dell’arricchimento di pochi, in una logica di mercificazione e non di cura della vita. Il lavoro non può essere contro la vita.
E allora bisogna cercare di intendersi su cosa significa “produttivo”, cosa significa “economia”, che cosa è “valore”, che cosa è “lavoro”, che cosa significa tutto questo per l’esistenza di donne e uomini in carne e ossa.
Quando una pensatrice post-patriarcale come Ina Praetorius scrive che «l’economia è cura» (Altreconomia, 2019), la forza del suo ragionamento è che mette in discussione il concetto di “economia” più che quello di “cura”, perché è l’economia il totem dei nostri tempi. Finché si continua a distinguere tra lavoro produttivo e lavoro di cura, limitandosi solo a rivendicare anche per questo un riconoscimento economico, non si fa il salto, si rimane in una logica residuale, rischiando di asservire anche la cura alle logiche del mercato – e gli esempi purtroppo sono tanti – mentre comunque poi i lavori di cura non retribuiti rimangono esclusivamente un problema delle donne. Bisogna invece ripensare completamente il lavoro, proprio a partire dal suo senso – che è quello di dare risposta ai bisogni fondamentali delle persone –, dalla sua utilità per la vita, con il desiderio e l’ambizione di riunificare produzione e riproduzione. Cambia allora completamente la gerarchia valoriale ed economica dei lavori; cambia l’ordine dei bisogni e delle priorità. Parimenti, l’attenzione alla dignità della vita per se stessa soppianta la dimensione compensatoria delle politiche di welfare che, pur avendo segnato indubbiamente una stagione importante, sono pur sempre l’espressione di un sostegno alla sfera della riproduzione dettato dalla vera preoccupazione che è quella di garantire l’attività produttiva. Filosofia questa che, sappiamo bene, sta tutta dentro la logica del patto tra capitale e lavoro salariato, e quindi è figlia di quell’epoca e di quella cultura del lavoro.
Ripensare invece, alla luce della priorità della vita, “economia”, “lavoro”, “valore” significa un vero cambio di civiltà. Credo che lo spazio di riflessione che gli eventi tragici degli ultimi mesi possono aprire su questi temi sia grande e che sia un guadagno che non va perso.
(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it,
29 maggio 2020)