4 Giugno 2020
vogue.it

Raffaella Cortese: l’intervista per i 25 anni della galleria

di Riccardo Conti


La gallerista ripercorre un quarto di secolo di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità


Venticinque anni fa inaugurava a Milano la Galleria Raffaella Cortese nel primo spazio di via Farneti diventando ben presto uno dei punti di riferimento che più hanno segnato la mappa del contemporaneo in città. In questo lungo periodo lo spazio, che nel frattempo si è espanso in tre diversi civici nella tranquilla via Stradella, ha visto sfilare alcuni dei nomi più importanti dell’arte del presente: autrici fondamentali di linguaggi quali performance e video, accanto ad artisti che sono cresciuti con la storia stessa della galleria. 25 anni di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità espressive che restituiscono la dimensione di un progetto complessivo sofisticato e persino raro per uno spazio privato.

Abbiamo conversato con Raffella Cortese, fondatrice della galleria che porta il suo nome, figura preziosa e sensibile nel panorama del mercato dell’arte contemporanea con la quale ripercorriamo alcuni momenti della sua carriera; dalla stringente attualità alla sua visione poetica del femminismo e dell’impegno culturale e politico nel lavoro degli artisti che rappresenta.


Partiamo da un tema inevitabile: poco prima del lockdown hai inaugurato la mostra dell’artista israeliana Yael Bartana che ora ha riaperto e che proseguirà fino al 13 di giugno: perché dobbiamo vederla? 

Patriarchy is History è una mostra potente, ben costruita, che merita di essere vista ed è stata infatti estesa. Yael Bartana è una figura emblematica, la cui ricerca racchiude tanti valori e diverse tematiche legate alla storia della galleria. È un’artista impegnata politicamente con una visione anche utopistica – penso alla trilogia con cui ha rappresentato la Polonia alla Biennale di Venezia del 2011, in cui immagina una possibilità concreta per un rinascimento ebraico in Polonia. Penso inoltre alla scritta al neon, assoluta protagonista nello spazio in via Stradella 4, dove l’intensa luce blu si fa ambientale e dichiara che la storia dell’umanità è scritta al maschile. Di lei amo ricordare un altro neon, What if Women Ruled the World?, quasi una provocazione che mi preme cogliere e rilanciare, dal momento che ho sempre lavorato in prevalenza con artiste donne e mi piace interrogarmi su questa possibilità.

Yael Bartana, Patriarchy is History, 2020. Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan. Photo t-space studio


Cos’ha rappresentato per la galleria l’interruzione dei mesi scorsi, come avete riconfigurato il lavoro durante questi mesi?

Il lockdown ha rappresentato per noi una modalità diversa di lavoro, da remoto, piuttosto che un’interruzione. È stato specialmente dedicato alla comunicazione e all’intensificazione dell’offerta digitale. Abbiamo inaugurato la Viewing Room, un’espansione dei nostri spazi, con una rassegna video. Personalmente, ho lavorato molto anche di memoria, ricostruendo e ricordando le esperienze che hanno contraddistinto questi 25 anni di attività. Mi sono riavvicinata alla letteratura, da sempre una mia passione, e all’arte antica, realizzando come siano state e siano tuttora delle vere e proprie fonti d’ispirazione anche nella scelta degli artisti.


A quali riflessioni ti ha portata questa lunga esperienza?

Prima di tutto, sentivo un grande desiderio di tornare in galleria, luogo che sono abituata a vivere intensamente. Amo condividerne gli spazi con i miei collaboratori, gli artisti, i collezionisti e trovo fondamentale il contatto diretto con le opere, che mi è ampiamente permesso anche grazie al nostro magazzino adiacente allo spazio espositivo. Allo stesso tempo, con l’intensificata esperienza virtuale degli ultimi mesi, ho realizzato come il nostro lavoro sarà sempre più legato al digitale. Sperimentando strumenti come la Viewing Room di Frieze, ho riconosciuto alcune potenzialità e riscontrato i primi risultati. Non sono paragonabili a quelli di una fiera reale, ma sono comunque segnali positivi, indici di una trasformazione in atto che ci vede ricettivi. Con alcuni colleghi italiani, stiamo infatti elaborando dei progetti corali online. Penso che, come ha affermato Paolo Verri, nel futuro prossimo il mondo umanistico dovrà viaggiare in parallelo al mondo della scienza e della tecnologia.


E da un punto di vista più personale invece?

Le meditazioni, al di là dei confini professionali, hanno toccato la sfera personale e, soprattutto, sollecitato la mia coscienza politica. Ho visto un mondo politico disorientato, e non parlo solo dell’Italia e dell’Europa. Mi sono interrogata a lungo sul potere, sui suoi limiti e pericoli. Cito a questo proposito le parole di Carlo Galli, che parla di un’“azione politica decidente che separa i sani dai malati” e di questa “obbedienza nuova” che viene richiesta ai cittadini, a spese della libertà dell’individuo: “Sempre nuovi perimetri spaziali vengono imposti: l’abitazione, il comune di residenza, i duecento metri dalla residenza, il metro e mezzo dalle altre persone; e poi i limiti regionali, e poi i confini nazionali.”.


Ora che finalmente possiamo tornare a visitare gallerie e musei dopo Yael Bartana avete in programma una collettiva assai particolare, ce la racconti?

Il prossimo progetto è apparentemente molto semplice – una sola opera sonora per ciascuno dei tre spazi espositivi – e nasce da una conversazione avuta con Marcello Maloberti. Durante la quarantena, sono state frequenti le chiamate con gli artisti, in cui ho ritrovato uno stato d’animo condiviso: la stanchezza d’immagini. I nostri siti, così come i social, hanno riversato una quantità di immagini senza precedenti. Ne è emerso il desiderio di sacrificare la vista a favore dell’ascolto. Ci siamo inventati una mostra, letteralmente, a tre voci, che coinvolge Maloberti, Miroslaw Balka e Simone Forti. Il primo invita il pubblico a immaginare un affresco di Lorenzo Lotto attraverso la sua descrizione orale, il secondo genera le parole pronunciate da Drupi, Sereno è, la terza presenta una registrazione originale da una sua sperimentazione del ‘68. Gli spazi della galleria saranno lasciati, per la prima volta, completamente vuoti, e sarà l’ennesima conferma della mia propensione verso i media time-based.


Veniamo a questo importante traguardo di venticinque anni della tua Galleria: nel 1995 iniziasti con una mostra di Franco Vimercati che vorrai celebrare nuovamente a settembre. Perché apristi il tuo primo spazio? Cosa ti spinse a dedicare il tuo tempo all’arte?

A settembre vorremmo proporre la mostra di Franco Vimercati, un artista che continua ad affascinarmi moltissimo, ossessivo e discreto, fra i primi a utilizzare concettualmente il mezzo fotografico in Italia, dagli anni Settanta. La curatela della mostra sarà affidata a Marco Scotini, che presenterà alcune serie piuttosto rare di opere degli anni Settanta: le tele bianche, i listelli di legno, le piastrelle, tutti oggetti famigliari che Vimercati ha minuziosamente e ripetitivamente analizzato attraverso l’obiettivo. La fotografia è un altro fil rouge che accomuna quasi tutti i miei artisti e che ho privilegiato fin dai primi anni Novanta. In quel momento storico il dibattito sul riconoscimento della fotografia come opera d’arte, anche da un punto di vista commerciale, era in pieno fermento ed è stato bello prenderne parte. Ho aperto il mio spazio e dedicato la mia vita all’arte, senza cui mi sentirei profondamente sola.


Molto prima che diventasse una sorta di trend la tua galleria ha proposto al pubblico alcune delle figure femminili fondamentali delle ultime tre generazioni: da Joan Jonas a Martha Rosler, da Kiki Smith a Roni Horn e italiane come Monica Bonvicini e Luisa Lambri solo per citarne alcune: che cosa hai imparato da questo scambio intenso con espressioni così radicali del mondo femminile?

La propensione verso l’arte femminile non ha mai avuto i connotati di una moda passeggera per me, ha sempre significato un grandissimo impegno oltre che un enorme piacere. La sensibilità femminile mi attrae in modo istintivo, mi cattura la sua profonda introspezione che si traduce in espressioni artistiche connotate spesso da un forte senso trasgressivo e perturbante. Martha Rosler e Monica Bonvicini sono due artiste molto coinvolte nelle questioni post-femminista, due instancabili battagliere; Joan Jonas si dedica con una sensibilità smisurata all’urgenza climatica; Kiki Smith ha analizzato il corpo della donna avvicinandolo sempre di più, negli anni, alla dimensione naturale e animale; Simone Forti continua a fare video mettendo in luce la sua malattia come parte si sé e del suo percorso: ciascuna di loro – sono 22 – arricchisce il programma della galleria in modo diverso, ma tutte hanno una straordinaria capacità di sperimentare, di rinnovarsi costantemente e con grande coraggio, e sono per me fonte d’ispirazione. Quando mi incontro con una personalità delicata come Luisa Lambri, è come affacciarsi da una nuova finestra sul mondo e scoprirne l’architettura, scomposta in dettagli, frammenti di luce, angoli, e chiaroscuri.


La stima e il rispetto e ciò che accomuna artisti, critici e collezionisti nei tuoi confronti e del lavoro che hai portato avanti in questi anni e la tua galleria si è guadagnata rapidamente lo status di punto cardinale tra gli spazi artistici milanesi: come hai bilanciato lo spirito di ricerca con le imprescindibili esigenze commerciali che una galleria deve soddisfare?

Ho sempre fatto ricerca perché fa parte del mio spirito e della mia idea di lavoro, non ho mai seguito le mode, ho sempre cercato di creare bisogni e desideri, e non nego che sia difficile bilanciare l’attività commerciale con delle scelte artistiche piuttosto difficili da un punto di vista del mercato. Oggi la galleria rappresenta ben 30 artisti di generazioni e nazionalità diverse, ne emerge un’eterogeneità che corrisponde a una grande libertà. Faccio le scelte che voglio, che sento importanti, che mi interessano e davvero stimolano la mia sensibilità. In questo mi sento molto libera.


Milano ha un rapporto con il contemporaneo che deve moltissimo alle gallerie e agli spazi privati anche per la scarsa offerta degli spazi istituzionali; tale assenza che effetti ha avuto sul lavoro di gallerista? Come hai visto cambiare la scena dell’arte contemporanea a Milano in questo quarto di secolo?

La scena dell’arte contemporanea a Milano è cambiata moltissimo in questi 25 anni. Nei primi anni Duemila ero Vicepresidente dell’ANGAMC, ci incontravamo spesso con l’Amministrazione Comunale per discutere di queste carenze e per sollecitare l’attuazione di un Museo – che ancora oggi non è avvenuta. Si sono però moltiplicati gli spazi, sia pubblici sia privati, dedicati al contemporaneo: penso per esempio alla Fondazione Prada che esisteva già nel 1993 e oggi ha espanso le sue sedi, all’Hangar Bicocca che è nata nel 2004 e alla Fondazione Carriero che ha aperto nel 2015. Certamente a Milano non sono mai mancate le ottime gallerie, ieri come oggi; ricordo sempre con stima Carla Pellegrini ed Emi Fontana. Prima del lockdown era una città davvero brillante e interessante, dove il turismo era attratto non solo dalla moda, dal design e dalla gastronomia, ma anche dall’arte, e si animava moltissimo in concomitanza con Miart e il suo ricco programma di eventi collaterali. Ora è un fondamentale dovere di tutti noi, “operatori culturali”, quello di riattivare la città, restituirle il fascino che aveva. La sua ricchezza da un punto di vista architettonico gioca un ruolo fondamentale in questo senso, anche grazie ai recenti interventi nella zona di Porta Garibaldi e poi di CityLife, che offre un programma di arte pubblica, e alle prossime riqualificazioni degli scali di Porta Romana e Farini. 


La storia di ogni galleria è la storia di incontri e dialogo con i collezionisti, qual è il profilo dei tuoi clienti e com’è stata l’evoluzione del collezionismo in questi anni?

Ho sempre privilegiato gli appassionati d’arte e quindi non ho mai molti rapporti con i “buyers”, proprio perché il mio lavoro si rivolge a persone che vogliono collezionare l’arte perché la amano profondamente. Ho conosciuto un collezionismo allo stesso tempo colto e animato dall’emozione, dall’istinto e da una grande sincerità: la collezione diventa così specchio delle proprie ossessioni e sensibilità. Credo di aver dato importanza all’aspetto umano, trasformando le intese in relazioni solide e durature, in vere e proprie amicizie. I collezionisti mi hanno anche aiutato tantissimo, sostenendo le mie scelte. Sono stati il più grande supporto alla mia attività e con me hanno vissuto viaggi e avventure, condiviso e coltivato passioni comuni. 

Le generazioni cambiano e oggi sono anche molto aperta ai più giovani e nuovi collezionisti, in cui continuo a ricercare quell’interesse nei confronti dell’arte che secondo me è fondamentale. L’arte può senz’altro rivelarsi un ottimo investimento, non voglio essere una purista e dire che l’arte è solo cultura, ma bisogna crederci e godere di quelle che sono le sue prerogative.


Da studente e poi da critico ho dei ricordi estremamente vividi legati alle mostre e agli artisti che hai proposto: il primo è senz’altro quello della performance di Marcello Maloberti intitolata All’incirca alla Caviglia del 2002: penso sia un’opera estremamente poetica e in qualche modo abbia definito non solo il vostro rapporto ma anche qualcosa di profondamente legato all’arte italiana degli ultimi trent’anni…

Marcello è un artista con cui lavoro dagli inizi e ho un rapporto estremamente intenso, le nostre divergenze d’opinione generano talvolta belle idee. Lui è stato una presenza costante e significativa anche quando ho cambiato e ampliato gli spazi, interpretandoli per primo con i suoi progetti spesso site-specific e sempre legati all’azione. Quella famosa performance, è vero, è stata profondamente poetica ma anche molto fisica e sensuale. Marcello ha invitato degli “extracomunitari”, come erano tristemente chiamati in quel periodo, in galleria. Vestiti eleganti, stavano letteralmente e metaforicamente in una posizione superiore, in piedi su degli sgabelli, con in mano delle rose rosse di un profumo inebriante che si mescolava all’odore della pelle. Marcello, un’artista che si è sempre dedicato all’analisi della scena locale, ha abbracciato in quel periodo un fenomeno nazionale, quello dell’immigrazione, che è poi diventata una tematica ampliamente affrontata nella scena artistica contemporanea. 


Nella programmazione della galleria oltre che alla performance hai dato molto spazio al linguaggio del video, anche in questo senso non una scelta immediatamente commerciale ma coraggiosa e rispettosa della necessità di molti artisti di esprimersi attraverso quel medium. Ricordo ad esempio un incontro con l’artista inglese Maria Marshall alla quale dedicasti nel 2005 una mostra perfetta, di soli video.  

Feci una mostra di Maria Marshall presentando il suo video di esordio When I grow up I want to be a cooker, uscito nel 1999, che ebbe una grande attenzione internazionale. Spesso gli unici protagonisti dei suoi video erano i figli, ritratti in una condizione di abbandono. Ma ogni situazione era solo un’illusione, generata dall’abile, perfetta, manipolazione digitale delle immagini.


Milano è una che città dove molto spesso le espressioni dell’arte contemporanea si sono fuse con quelle della moda. Come vedi questo scambio?

Trovo che l’incontro fra le arti visive e la moda sia spesso fecondo. Abbiamo realizzato mostre in collaborazione con Krizia, Herno e Aspesi, contaminazioni utili che hanno creato una bella trasversalità. Apprezzo molto anche le riviste di moda che dedicano sempre più spazio all’arte perché le loro penne offrono un punto di vista diverso, stimolante. 


C’è un’artista con cui non hai ancora lavorato e che ti piacerebbe mettere in mostra prima o poi?

 Si c’è. È un pittore, è nel mio cuore, chissà.


(www.libreriadelledonne.it, 04/06/2020)
https://www.vogue.it/news/article/raffaella-cortese-galleria-25-anni-intervista

Print Friendly, PDF & Email