di Valentina Pazé
Tra i settori economici che sono stati certamente penalizzati dal lockdown c’è anche il mercato del sesso. Lo ricorda, su il manifesto del 12 maggio, Shendi Veli, denunciando l’abbandono in cui sono stati lasciati i e le sex worker (di cui parlerò d’ora in poi al femminile, data la netta prevalenza delle donne nel settore) durante la pandemia. E riproponendo le classiche rivendicazioni dei movimenti per la “decriminalizzazione”: dal riconoscimento della prostituzione come attività lavorativa in piena regola alla legalizzazione delle attività collaterali, come il favoreggiamento, che nel nostro paese è un reato che viene talvolta contestato anche a chi affitta la casa a una prostituta o abita con lei (secondo un’interpretazione peraltro scorretta della legge Merlin, criticata da Silvia Niccolai in AA.VV., Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano 2019, pp. 70-117).
Intervenendo su 27esima ora del 22 maggio, Luciana Tavernini mostra l’altra faccia della medaglia: «Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincere che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzare il prezzo. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro». E dunque, anziché chiedere di legalizzare le attività di coloro che guadagnano dalla prostituzione altrui, bisognerebbe attuare quella parte della legge Merlin che prevede formazione e inserimento lavorativo per le donne che desiderano cambiare vita. Uscendo da un “giro” in cui la stragrande maggioranza di loro è finita per bisogno, e talvolta per vera e propria costrizione (le straniere vittime della tratta), non certo per scelta.
Il contrasto tra queste due posizioni sembra irriducibile e riguarda la stessa scelta delle parole: prostituzione o sex work? “Stupro a pagamento” (come è intitolato il bel volume autobiografico di Rachel Moran) o «un lavoro come un altro», di cui si tratterebbe di garantire l’esercizio in condizioni di legalità e sicurezza? Il tema è di quelli che dividono, anche a sinistra, anche all’interno del femminismo e delle associazioni per la difesa dei diritti umani. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, data la molteplicità delle questioni in gioco: dalla visione del corpo, della sessualità, delle relazioni tra i sessi alle nostre idee sulla libertà, i diritti, il rapporto tra Stato e mercato.
Ecco allora che, a cinquant’anni dallo Statuto dei lavoratori, riflettere sulla prostituzione può essere un’occasione per interrogarsi su un tema più generale: come si tutelano la dignità e la libertà del lavoro, e dei lavoratori, che la nostra Costituzione afferma in modo particolarmente solenne e impegnativo? Ma, ancor prima, che cosa dobbiamo intendere per “lavoro”? Ogni e qualsiasi attività per la quale venga a crearsi una domanda sul mercato delle merci e dei servizi dovrebbe essere riconosciuta e garantita come un lavoro?
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Se decidiamo di chiamare “lavoro” qualsiasi prestazione a pagamento derivante dal “libero” incontro tra una domanda e un’offerta, dovremmo senz’altro rispondere affermativamente. […]
[La prostituzione è] un tipo di attività […] che si presume non venga scelto se non da chi si trovi in condizioni di particolare vulnerabilità, sul piano economico ma spesso anche psicologico (come nel caso di chi ha subito abusi sessuali durante l’infanzia). E in relazione al quale è arduo pensare alla liberalizzazione come a una forma di “riduzione del danno”. Per un verso perché, come dimostrano i Paesi che hanno intrapreso questa strada, la maggior parte delle donne non intende farsi etichettare come prostituta e preferisce continuare a operare nel settore informale, concependo la propria attività come transitoria. In secondo luogo perché il “danno”, in questo caso, è insito nell’attività stessa: «Proprio per le sue intrinseche caratteristiche di dominanza, subordinazione e assenza di relazione personale, il sesso mercenario è molto legato alla violenza e statisticamente le prostitute sono le maggiori vittime di aggressioni sessuali, stupro compreso, e uccisioni» (S. Bonino, Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia, Roma-Bari 2015, p. 92).
Intendiamoci. In un contesto in cui il modello neo-liberale dell’individuo “imprenditore di se stesso” è egemone, può ben accadere che la libertà sessuale sia reinterpretata da alcune donne in chiave mercantile e intesa come diritto a disporre del proprio corpo come una merce. È possibile che vi siano donne «attive e partecipi della propria oggettualizzazione» (come osservava Ida Dominjanni […] ne Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Roma 2014). […] Si tratta tuttavia di chiedersi se simili scelte – di cui è sempre difficile valutare il grado di libertà, dato il contesto asimmetrico in cui si compiono – vadano politicamente valorizzate, favorite, incoraggiate, oppure no. […]
Di certo qualche limite lo fissa la nostra Costituzione quando, all’art. 41, stabilisce che «l’iniziativa economica è libera», ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». È proprio basandosi su questo articolo che la Corte costituzionale, nel marzo del 2019, ha dichiarato infondati i dubbi di incostituzionalità nei confronti della legge Merlin. Sostenendo, per un verso, che l’offerta di prestazioni sessuali a pagamento non ha niente a che vedere con la «libertà di autodeterminazione sessuale» garantita dall’art. 2. E, per altro verso, che la libertà economica è riconosciuta dall’art. 41 entro precisi limiti, tra cui il rispetto della «dignità della persona», che viene leso da «una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente».
(volerelaluna.it, 26 maggio 2020)