di Franca Fortunato
Nei prossimi giorni il Parlamento italiano dovrà votare il rifinanziamento alla Guardia Costiera libica per riportare forzatamente i migranti, imbarcati sui gommoni, in Libia. “Salvataggi in mare” li chiamano e Mario Draghi, in visita a Tripoli, ha ringraziato. Quale sia il destino dei “salvati in mare” ce lo racconta Francesca Mannocchi sull’ultimo numero dell’Espresso. «Nella notte tra il sette e l’otto aprile scorso – scrive – un uomo è stato ucciso e due giovani, un diciassettenne e un diciottenne, sono rimati feriti nel centro di raccolta di Al-Mabani, Tripoli, centro di detenzione, dove è scoppiata una rissa e le guardie hanno reagito aprendo il fuoco in modo indiscriminato. Quello di Al-Mabani è un centro di smistamento dove le persone restano per un tempo indefinito prima di essere spostate nei centri ufficiali. È il più affollato dei centri di Tripoli. A febbraio nel giro di poche settimane è passato dalla capienza prevista – circa 300 persone – a 1500, che significa che in ogni stanzone ci sono tra le duecento e le duecentocinquanta persone e che, insieme ai migranti, sono aumentate le tensioni. Le condizioni nel centro sono invivibili: c’è poca luce e ventilazione, non arriva abbastanza cibo né acqua, non ci sono bagni per tutti, solo tre o quattro ogni duecento persone». È per rinchiudere i “salvati in mare” in luoghi simili e mantenere gli altri in centri lager che l’Italia, negli ultimi quattro anni, ha pagato la Libia (213 milioni di euro) per “contenere i flussi migratori” e adesso il Parlamento si appresta a rifinanziare. “Contenere”, “rimpatriare”, “respingere” sono le parole che da anni hanno preso il posto di “soccorrere”, “salvare”, “accogliere”, “ospitare” e hanno trasformato il Mediterraneo da ponte tra civiltà, culture, lingue diverse in “confini”, “muro”, “cimitero” “morte”. In fondo a quel mare, naufragio dopo naufragio, continua a crescere il reame sottomarino delle/i bambine/i lasciati annegare da un’Europa che a parole parla di “approccio umano e umanitario”, di “solidarietà” e “umanità”, come ha fatto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a cui avevo dato credito, presentando il nuovo patto per asilo e migrazione, ma che nei fatti guarda ai respingimenti e lascia i salvataggi in mare alle poche Ong ancora in condizione di effettuare recuperi. Il Mediterraneo da tempo non è “Mare nostrum” perché non tutti i popoli che vivono sulle due sponde lo vivono come tale. Non so se è vero che la bellezza salverà il mondo, come ha detto qualcuno, e se questo mondo dove dominano il profitto e il denaro, come dimostra anche la vicenda dei vaccini contro il Covid per i Paesi poveri, è salvabile, ma ri-leggere in questo presente il libro del poeta “arabo-andaluso” Mohammed Bennis Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia, ospitalità, che giaceva nella mia libreria e si è imposto al mio sguardo, è stato un modo per restituire dignità e umanità alle tante vite annegate, umiliate, violentate, disprezzate giorno dopo giorno lungo le rotte dell’immigrazione di terra e di mare. Un modo per dire della bellezza di civiltà, lingue e culture diverse dove accoglienza e ospitalità sono simbolo della generosità delle genti mediterranee. «La mia poesia – scrive Mohammed – appartiene a quella poesia araba che ha accolto gioiosamente lo straniero nella sua lingua e nella sua cultura, nel rispetto dell’ospitalità. La mia poesia ha scelto il dialogo.» Pagare la Guardia Costiera libica contro i migranti è l’ennesimo vergognoso tradimento di quella comune civiltà mediterranea dell’accoglienza e dell’ospitalità che la poesia di Mohammed accoglie e che molte/i praticano, anche in Calabria.
(Il Quotidiano del Sud, 29 maggio 2021)