di Maria Esposito Siotto
A Santa Margherita Ligure si tiene oggi la prima Conferenza G20 dedicata alle donne: questa lettera aperta chiede una svolta politica. Ci si centri sulla differenza femminile, senza limitarsi a discorsi paritari: le donne chiedono un cambio da lungo atteso.
È possibile pensare al G20 delle Donne come un momento di riflessione innovativa ed originale per la nostra vita di donne?
La vicenda afghana di queste ore ci ricorda che decenni di risorse e di lavoro possono essere distrutti in un attimo: il potere maschile può tornare velocemente alle sue origini e ricacciare i corpi delle donne sul terreno della contesa e della restaurazione.
Se è vero che le strade dell’autorità femminile devono proporre occasioni di crescita formativa e infrastrutturale, come indicato nelle dichiarazioni della Ministra Bonetti (l’educazione STEM, sgravi fiscali per le assunzioni femminili, asili nido), ci sembra manchi all’appello la proposta di azioni concrete sul fronte dei fenomeni di restaurazione neo-patriarcale, simbolica e materiale.
Quattro donne uccise solo nelle ultime ore stanno a significare una lotta alla violenza che ancora non decolla negli strumenti di contrasto e nelle raffigurazioni sociali che le attribuiamo.
È evidente la determinazione con la quale, anche da parte di ambiti progressisti, si stanno intaccando i già precari spazi di libertà femminile e si mette in forte discussione il valore della differenza femminile, della genealogia femminile e del legame materno con figlie e figli.
Non possiamo ignorare la lotta delle madri per i figli strappati, i tentativi di annullare la differenza femminile, di legalizzare la prostituzione organizzata, di introdurre l’utero in affitto, di proporre come soluzione ai bambini i bloccanti ormonali, di ricavare lavoro di cura gratuito dalle donne: saranno questi il nostro burqa, il fucile alla tempia della libertà femminile.
A fronte di queste battaglie ci sono buone possibilità di perdere, se noi donne continuiamo ad inseguire gli spazi pubblici declinati unicamente al maschile.
Le donne di molte città d’Italia, associazioni, donne della politica e del femminismo si sono unite ai presidi presso le Prefetture nei mesi di giugno-luglio con le “Madri in rivolta”: chiedono di approfondire il discusso “diritto” alla bigenitorialità, gli effetti perversi della legge 54/2006 e la vittimizzazione secondaria delle madri che denunciano violenza e chiedono spazi di libertà proteggendo le/i figlie/i. Con fatica emerge la disumanità dei decreti di allontanamento di bambini verso case-famiglia o padri maltrattanti, delle spese processuali addebitate a madri indigenti e delle CTU – consulenze tecniche di ufficio – per l’affidamento dei figli che diventano trattamenti sanitari obbligatori per le madri a causa di sindromi inesistenti – come l’alienazione genitoriale. Mentre, per contro, i padri maltrattanti vengono giustificati, tutelati, incoraggiati.
La violenza contro madri e bambine/i rappresenta solo la punta dell’iceberg di una volontà di ri-assoggettamento delle donne e di ri-affermazione dei “diritti” dei padri. Questi ambiti non possono più essere tenuti separati dall’azione politica perché sono storicizzabili con la crisi delle politiche paritarie che non tengono conto delle differenze tra i sessi.
La bigenitorialità e l’affido condiviso andavano a soddisfare un paritarismo ideologico, animato dall’aspettativa che la condivisione del carico di cura fosse la strada della libertà femminile e della responsabilità maschile, ed è ciò che pensano ancora oggi molte donne. Ma i padri separati sono organizzati in lobby decise a cancellare il “privilegio” della contribuzione economica paterna al mantenimento, e mettono in discussione la preminenza del legame materno nella crescita delle/i bambine/i, sancita e protetta dal diritto di famiglia fino al 1975.
L’effetto paradossale è stato quello di dividere in due i bambini anziché le responsabilità, e di proteggere persino le competenze genitoriali dei maltrattanti. Questo è stato possibile con il passaggio cruciale dalla differenza all’indifferenza sessuale. Il neutro sfavorisce coloro che sono oppresse proprio in base al loro sesso: le donne. Rimossa, politicamente e simbolicamente, la differenza sessuale non può produrre liberazione. La decostruzione del valore simbolico della differenza chiama la politica a una inversione radicale e lungimirante.
Alle donne va assicurato uno spazio pubblico restituito alla libertà femminile per potersi dedicare se lo vogliono alla crescita dei bambini con un adeguato sostegno economico, oppure una adeguata protezione contrattuale. Questo vuol dire non solo asili nido, peraltro proposti oggi persino in fase di esogestazione.
Tutto il mondo della fragilità va assicurato con adeguato sostegno modellato sulla differenza. La cura, come paradigma di rinnovate visioni politiche, rischia l’ennesima svalorizzazione retorica se non declinata come concreta strategia. Il legame materno è anche la chiave per crescere e vivere nella consapevolezza della fragilità e della interdipendenza.
Sulle madri si scaglia tanta violenza perché sono la radice delle relazioni dell’umano. Abbiamo scritto altrove che «il sogno paritario degli anni ’70 ha lusingato le figlie promettendo loro la libertà contro le proprie madri, contro ciò che esse rappresentavano». Siamo pronte, oggi, a riconoscere l’ingenuità di quel pensiero? Se le madri non sono libere nella loro differenza non potranno crescere figlie libere. Nella precarietà sociale ed economica non potremo accogliere altre donne, né potremmo illudere sui vantaggi della vita in Occidente.
Questo cortocircuito ha generato i danni dell’oggi e non possiamo più vedere agire tanta mortifera e distruttiva presenza. Ci rivolgiamo alla ministra Bonetti perché si avvii una riflessione possibile, senza contrapporre modelli o interpretazioni: le donne, se vogliono, sanno farlo.
Maria Esposito Siotto (con il contributo della redazione di Feminist Post)
(https://feministpost.it/ 26 agosto 2021)