di Francesca Pierantozzi
«Con i Talebani bisogna parlare. Ignorarli è ignorare la realtà. Combatterli porterà ad altri disastri. Se lo dico io, che sono in cima alla lista nera, che ho dovuto abbandonare il mio Paese per non essere ammazzata come è stato ammazzato mio padre, significa che si può fare». Zarifa Ghafari non ha perso l’energia, la voce, i gesti, che l’hanno fatta sopravvivere per cinque anni nel suo ufficio di sindaco a Maidan Sharh, 50mila abitanti a 50 chilometri da Kabul. Aveva 26 anni quanto ha cominciato: la sindaca più giovane del Paese, la prima donna ad avere un incarico di potere nell’ultraconservatrice provincia di Wardag. Il 19 agosto, con suo marito, si è imbarcata su uno degli aerei in partenza dall’aeroporto di Kabul preso d’assalto.
«Pensavo che il momento più brutto della mia vita fosse stato quando hanno ucciso mio padre al posto mio, ma ho provato lo stesso lancinante dolore quando abbiamo decollato. Ho lasciato tutto dietro: vent’anni di battaglie e di sogni». Ormai vive da rifugiata in Germania. Ieri era a Parigi, invitata alla conferenza sull’Afghanistan organizzata dalla sindaca Anne Hidalgo. Scopre il rossetto tirando via la mascherina, il velo leggero a fiori copre poco i capelli.
Cosa farà adesso?
«Voglio parlare per chi non può, per le donne in Afghanistan. Il giorno dopo l’assassinio di mio padre ero di nuovo nel mio ufficio. Ora sono qui. Non mi riduco al silenzio».
Cosa chiederebbe alla comunità internazionale?
«Se si vuole fare qualcosa di concreto, non si possono ignorare i Talebani. Sono al governo e ci resteranno. Rifiutare quel governo significa adesso abbandonare una nazione, milioni di civili che non sono certo tutti integralisti. Negoziare e aprire un dialogo è importante, anche e soprattutto per le donne, che rappresentano il cinquanta per cento della popolazione. Oppure qualcuno può pensare che la soluzione sia evacuare tutti? Quante persone, donne, uomini e bambini, si potranno far uscire dal Paese? Sarebbe soltanto un altro disastro. La comunità può aiutare l’Afghanistan facendo pressione sul Pakistan, affinché smetta di interferire con i nostri affari interni, e ci lasci lo spazio necessario per ricostruire».
Pensa davvero che una ricostruzione sia possibile con i Talebani al governo?
«Penso che adesso tocca a noi. Che se un intervento esterno non è riuscito a sconfiggere i Talebani quando non erano al governo non ci riuscirà ora. Penso che dobbiamo proteggere le conquiste di questi vent’anni. Penso che la metà della popolazione dell’Afghanistan sono donne, e che i Talebani non potranno governare il paese senza di loro. Tocca a noi, alla nostra generazione».
Lei sarebbe pronta a collaborare con il governo?
«Io sono pronta a parlare, in particolare dei diritti delle donne. Dicono di volere applicare la sharia, ma anch’io sono musulmana, sono cresciuta in una famiglia musulmana e so quali sono i miei diritti dentro l’islam. Sono cose che riguardano noi afghani, sono le nostre norme sociali, le nostre tradizioni, il tipo di società che vogliamo scegliere».
Lei è costretta, in questo momento, all’esilio. Come lei molti afghani della classe dirigente o intellettuale. Chi e come può portare i Talebani a negoziare?
«Il nuovo governo vuole legittimità internazionale, e quindi è portato ad ascoltare. La comunità internazionale deve far leva su questo. Ho lavorato al ministero della Difesa, e ho visto quanta gente moriva ogni giorno, ho visto il dolore delle famiglie, non voglio vederlo di nuovo. Non voglio che altri continuino a provare quello che provo io, che ora ho perso tutto. Prima che il fuoco bruci di nuovo le città e i giovani, dobbiamo sederci a un tavolo e parlare. Si può fare, dobbiamo andare oltre i nostri lutti come sto cercando di fare io. Chi pensa che le cose andranno meglio se si comincia una nuova guerra o si rifiuta di riconoscere questo governo si sbaglia».
Esiste un’opposizione anche dentro l’Afghanistan. Una resistenza si sta organizzando nel Panshir. Cosa pensa di questi movimenti. Non si sente di sostenerli?
«Io so quanto sia difficile essere cittadina del mio Paese. Non voglio giudicare questi movimenti, ma personalmente ritengo che combattere di nuovo i Talebani con una guerra civile sarà un disastro ancora maggiore. Io dico che noi possiamo rendere migliore questo governo. Le donne, in particolare, possono farlo, perché sono soprattutto le donne che hanno costruito il Paese in questi anni, con lealtà e onestà, sforzi e capacità. Questo non deve essere buttato via».
(Il Messaggero, 3 settembre 2021)