di Maria Grosso
«Hai lavorato legalmente in Francia?». «Ho lavorato tanto per una signora, facevo la sarta e anche le pulizie». «Ma hai mai avuto una busta paga francese?». «No». «Hai ricevuto la pensione?». «No». «E in Italia?». «Ho lavorato cinque anni in fabbrica senza mai avere una busta paga, poi ho lavorato nei campi ma neanche là mettevano in regola…».
Una mano femminile istoriata di vene, che scrive a penna su un diario, un paesaggio di campagna, che scorre dal finestrino come fossero anni a ritroso; il gocciolare dell’acqua in un lavatoio e una parete di ritratti fotografici, incorniciati da rosari pendenti: tutto questo diventa un unico flusso di memoria e di scoperta mentre le domande di cui sopra si srotolano come un gomitolo tra una nipote – una regista quasi sempre in voice over – e la nonna, Benita, nata a Vo’, Padova, nel 1930 e poi emigrata ventenne insieme al marito minatore prima in Svizzera e poi in Francia.
Ma c’è anche un tesoro sonoro, un registratore, ritrovato nel 2012, il giorno del funerale del nonno da Noémi Aubry – così si chiama la regista, classe ’81 – con dentro una cassetta e con scritte due date a matita: 1966 e 1986. Si tratta di un oggetto viaggiante grazie al quale i membri della famiglia forzatamente emigrati si scambiavano messaggi con coloro che erano rimasti in Italia.
Ecco, tra analisi sui contesti storico-politico-sociali e loro riflessi nei vissuti individuali e collettivi, Le magnétophone può ben rappresentare la ricerca tra cinema e lavoro del Working Title Film Festival di Vicenza (9-14 maggio), guidato da Marina Resta e giunto alla sua VI edizione.
Dove il punto nodale non è l’attingere del documentario alla biografia familiare – cosa anche abusata in questi anni – ma il suo far riferimento a una genealogia femminile che congiunge in un’unica interlocuzione visionaria la regista la madre la nonna e la bisnonna.
È lì che Le magnétophone va spietatamente a segno, è lì che riesce a cogliere “il lavoro”, questo sconosciuto, attraverso l’insostenibile pesantezza dei carichi sulle spalle di una donna emigrata – allora come oggi –. Un’indagine che, dopo decenni di erosione dei diritti, risulta forse ancora più ardua del processo grazie al quale Benita lavava le lenzuola con cenere e mastello al canale. Ma che pure arriva, facendo percepire cosa volesse dire fronteggiare il lavoro sfruttato fuori casa e quello di cura di una neonata e del suocero a casa, nello straniamento dell’aver lasciato giovanissima il proprio Paese e i propri genitori e ritrovandosi in un ambiente a volte diffidente se non razzista verso gli stranieri. Tanto che Benita più volte è sul punto di andarsene, tanto che sta per perdere la prima figlia perché in ospedale ha difficoltà con la lingua. Questo mentre il marito si ammala per il lavoro in miniera senza aver nemmeno raggiunto i sei anni sufficienti per la pensione. Da ragazza, con sua sorella aveva anche conosciuto il lavoro nelle risaie, le ginocchia in acqua tutto il giorno, in famiglia dormivano in nove in una stanza e sua madre Noemi la sera rammendava i calzini di tutti.
Così, tra registrazioni su fondo nero e home movies, imbarazzo, ringraziamenti per i biscotti ricevuti e promesse di scriversi presto, mentre Benita saluta i vivi e i morti, il marito che le è apparso per tanto tempo e che si è trattenuta dal toccare per evitare scomparisse, continua affettuosa e inoppugnabile la ricerca di Aubry: «Chiamo mia madre e premiamo play, voglio che i messaggi proseguano, voglio di nuovo mia nonna forte e bella con le mani che raccolgono le ortiche senza dolore».
(Alias-il manifesto, 14 maggio 2022)