di Luigi Cavallaro
“COSA RESTA DEL PADRE?” DI MASSIMO RECALCATI
Quarant’anni fa, la rivoluzione giovanile e quella femminista criticarono in modo radicale l’equivalenza freudiana tra il Padre e la Legge. Il nostro tempo sembra aver sancito la loro vittoria: la rappresentazione edipica del Padre è declinata e pochi dubitano del fatto che viviamo in una società “post-patriarcale”,all’insegna dell'”anti-Edipo”. Non sono più i figli che domandano di essere “riconosciuti” dai genitori, ma questi ultimi a cercare insistentemente l’amore dei loro figli.
E nemmeno sono più i figli a identificarsi con il padre o la madre, ma padri e madri a investirli di attese narcisistiche di realizzazione. Contrariamente a quanto avevano pronosticato i protagonisti delle rivoluzioni anni ’70, l’avvento di una società non più attraversata dall’interdetto non ha tuttavia coinciso con l’approdo nella Terra Promessa.
Gli adulti non riescono più a sostenere il peso del conflitto che un “no” comporta, e proprio per ciò tendono a dire sempre “sì”, magari trincerandosi dietro il carattere democratico del “dialogo”. La famiglia tende a strutturarsi secondo le esigenze del dio-bambino e della sua “volontà” ormai assoluta, il che a sua volta genera nel bambino (e poi nell’adolescente) una iperattività il cui aspetto patologico si coglie nell’infittirsi delle psicopatologie legate al ritiro narcisistico in un godimento pulsionale monadico, asessuato e sterile.
Specularmente, sul piano macrosociale, la caduta dell’interdetto si manifesta nella forma di un “perché no?”, che accompagna qualsiasi comportamento individuale o collettivo. La dissoluzione della Legge della castrazione simbolica, che secondo Freud aveva il compito di mettere in relazione il desiderio del soggetto con l’esperienza del limite, ha indotto a credere che l’animale umano sia “libero” per natura: senza vincoli, senza limiti, agito solo dalla suavolontà di godimento.
Soprattutto, ha indotto a credere che l'”oggetto ” che causa il desiderio possa confondersi con una semplice “cosa “, o meglio con una montagna di cose (o magari, per dirla con Marx, con “una immane raccolta di merci”). Ne è venuta una crescente difficoltà nel consegnare senso alle proprie esistenze, di cui testimonia l’imperversare delle depressioni e di quelle sindromi che traggono dalle psicosi la ben nota caratteristica del rifiuto della realtà.
Rispetto a questo quadro, già analizzato in molti suoi lavori precedenti, la tesi che Massimo Recalcati argomenta nel suo ultimo libro,Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna (RaffaelloCortina, pp. 189, euro 14) è doppiamente scandalosa. Non solo perché egli torna esplicitamente a dire che l’effetto più eclatante del venir meno della Legge è l’annullamento del desiderio, che sottratto a ogni limite si manifesta in forma puramente dissipativa, cioè come pulsione di morte. Ma soprattutto perché lo fa denunciando con chiarezza quella paradossale convergenza che si realizzò, proprio negli anni ’70, tra il moto della contestazione giovanile e il definitivo affermarsi di ciò che Lacan chiamava “il discorso del capitalista”.
La parola del padre, spiega Recalcati, è “trauma”. Ma è un trauma benefico, perché definisce un limite invalicabile e spezza il circuito incestuoso del legame immaginario tra madre e figlio, donando al tempo stesso al figlio la facoltà di desiderare. L’esilio dalla Cosa (dal seno materno), che è un portato ineliminabile della castrazione simbolica esercitata dal padre, è dunque al contempo posizione del limite e, proprio per ciò, strutturazione del desiderio: chi non incontra limiti, infatti, non ha logicamente la possibilità di “desiderare”.
È in questo senso che la funzione del padre consiste nel realizzare l’alleanza del desiderio con la Legge.
La separazione dei quali, precisa Recalcati, assume le sembianze speculari di Kant e di Sade: “Da una parte, l’esaltazione del dover essere come imperativo morale che annichilisce la dimensione virtuale del desiderio; dall’altra lo sprigionamento di una volontà di godimento che rifiuta ogni limite e che finisce per mescolarsi con una tendenza pura e rovinosa alla morte”.
Non c’è allora da stupirsi che l'”anti-Edipo” abbia potuto affermarsi nel segno del trionfo del “discorso del capitalista”. Sulla scorta dei suggerimenti di Recalcati, proverei a dirla così. Gli anni ’70 sono anni in cui va in crisi quel “limite” reciproco che nelle società industriali avanzate si era costituito fra “narcisismo” e “socialismo”: un limite che, dopo la tragica esperienza dei totalitarismi e della guerra mondiale, era stato articolato grazie a quei peculiarissimi “oggetti transizionali” che furono i partiti e, in genere, le organizzazioni collettive. Situati in quel “territorio intermedio tra la realtà psichica interna e il mondo esterno come viene percepito tra due persone in comune” (Winnicott), essi avevano assunto di fatto il Nome-del-Padre dopo che già Freud, rivelando la struttura dell’Edipo, aveva annunciato la dissoluzione del Padre-Norma del capitalismo fin de siécle.
Tuttavia, nelle aule universitarie occupate come nelle sale di contrattazione delle Borse valori, la critica al limite dato assunse inopinatamente la forma di una critica del limite in quanto tale. In gioco, evidentemente, c’era – e non poteva non esserci – una particolare declinazione della Legge della castrazione simbolica, che in quell’epoca vedeva dominare il “socialismo” sul “narcisismo”, l’uguaglianza sulla libertà, lo stato sul mercato. Ma la critica condotta all’insegna del “Vietato vietare!” si dimostrò un grimaldello efficacissimo nel ribaltarla completamente, invertendo le gerarchie di dominio e subordinazione. Al punto che, se oggi Recalcati può convincentemente parlarci di un nuovo “totalitarismo dell’oggetto”, è perché il trionfo della triade “narcisismo-libertà-mercato” ha riconfigurato il nostro movimento sociale nella forma di un “movimento di cose” (Marx), al quale siamo tornati ad essere assoggettati.
Si capisce che, in questo contesto, ogni discorso sulla crisi della funzione paterna finisca con l’essere – come scrive Recalcati – “irrimediabilmente datato e irrimediabilmente urgente”. Fermo restando che “il Padre non è più una questione di genere o di sangue” e “qualunque cosa” (come aveva detto l’ultimo Lacan) potrà esercitarne la funzione, il problema sta proprio in quella funzione: è possibile, e come, una nuova alleanza fra il desiderio e la Legge?
Ha ragione Recalcati a suggerire che l’obiettivo dev’essere quello di ricostruire un legame fondato su una “tensione positiva” tra “narcisismo ” e “socialismo”, capace di “integrare l’erranza sul comune fondamento dell’appartenenza”. Ma se dobbiamo tornare a ricercare il nostro fondamento nell'”appartenenza “, nella communitas, dubiterei invece che la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra possa presentarsi – come pure scrive Recalcati – nella preservazione di un “vuoto di sapere”. Un padre che voglia dare testimonianza del proprio desiderio, seppure nella
forma di un “sapere” che “non racchiude e non risolve mai adeguatamente il mistero dell’esistenza e della sua contingenza illimitata”, non dovrebbe piuttosto farlo sullo sfondo di una relativizzazione, cioè di una storicizzazione, del suo sapere circa il “limite”? Dicendo insomma non già: “so di non sapere “,ma semmai: “tutto ciò che è reale nella storia umana diventa col tempo irrazionale”, come si espresse un volta il vecchio Engels? Non è così che la questione dell'”eredità ” del padre può porsi nella forma di una “riconquista”, come suggeriva Freud e come Recalcati non manca di ricordarci? Perché mai, se no, scenderemmo in piazza a difendere la Costituzione.