Luisa Muraro
Molte ingiustizie contro le donne sono finite, ma la violenza no, non accenna a diminuire, come mostra la cronaca di queste settimane. Le nostre vite sono diventate più libere di quelle delle nostre madri, ma la violenza non è cessata e, come in passato, essa proviene spesso da uomini ai quali la vittima era legata da rapporti stretti. Le cifre sono impressionanti. Che cosa significa questa ripetitività, c’è qualcosa che si può fare e a quali profondità bisogna andare per vedere qualche cambiamento?
Per cominciare, io suggerisco di non credere, davanti ad uomini come l’assassino di Jennifer Zacconi, che si tratti di casi isolati e di comportamenti patologici. Tra la violenza estrema e i comportamenti ordinari, infatti, c’è un continuum che ci sfugge solo perché passa sotto silenzio la violenza meno grave ma più diffusa. Credere che i violenti siano una minoranza a sé stante, potrebbe essere solo un alibi per non chiederci a quale titolo, di paura o di disprezzo o altro, chi lo sa, la violenza entra nella sessualità maschile, violenza specificamente sessista, da riconoscere come tale. Se lo chiedano, per favore, anche i magistrati e i loro consulenti. Sono troppi gli uomini che, dopo una condanna definitiva, vengono rimessi in libertà e tornano a infierire su donne. Il caso di Angelo Izzo è unico solo per la sua enormità. Nel 1975, lui e i suoi amici Guido e Ghira, allora tre giovanotti della Roma bene (sic), seviziarono a morte le giovanissime Rosaria Lopez e Donatella Colasanti: questa sopravvisse per accusarli e la sua vita non ha avuto altro senso, a parte la vicinanza amorosa di sua madre: morta questa, è morta anche lei, il 31 dicembre scorso. Ebbene, proprio l’anno scorso, il suddetto Angelo Izzo, ergastolano, ottiene la semilibertà e di lì a poco sevizia e uccide due donne, madre e figlia, quest’ultima una ragazzina di 14 anni. Com’è potuto succedere che un giudice e uno psicologo, senza neanche porsi il problema di quella sua vittima ancora viva, abbiano ritenuto degno di libertà e di fiducia quel miserabile? Io credo di saperlo. Lo avranno giudicato da come si atteggiava verso di loro, maschi e detentori di un potere: da uomo ragionevole e rispettoso. Nella società del “tra noi uomini adulti” è così che ci si comporta, temo, tutti che fanno mostra di una solida virilità, tutti reciprocamente rispettosi e complici, nessuno che lasci trasparire quello che lo rode nei confronti dell’altro sesso.
Da Aristotele in poi, per millenni, gli uomini si sono considerati il primo sesso e, per sostenere questo primato, hanno elaborato una serie di teorie fisiche e metafisiche, nessuna delle quali è rimasta in piedi. In realtà, si sono aiutati con il dominio patriarcale. Dietro a tutta questa storia, io intravedo una difficoltà troppo a lungo ignorata. Diventare uomini non é per niente facile, né in senso biologico né in quello morale e psicologico, perché significa assumere un’identità differente da quella femminile della madre. Ora che certi privilegi sono finiti, ora che le donne possono istruirsi ed essere indipendenti, la difficoltà di quel necessario distaccarsi dalla matrice della propria vita, potrebbe essersi acuita. Bisogna saperla e andarle incontro, ignorarla non aiuta nessuno.