di Antonella Nappi, Giovanna Cifoletti e Alfonso Navarra
I tre articoli seguenti, apparsi su NoiDonne il 5 gennaio 2023, sono il frutto di uno scambio tra le due autrici e l’autore sul caso commentato il 7 dicembre 2022 da Iole Natoli nell’articolo Quella madre che non è madre è come un padre / Quando il diritto nega la realtà, che riguarda una sentenza sull’attribuzione di maternità in una coppia lesbica in cui una ha portato l’embrione dell’altra ed entrambe chiedevano di essere registrate come madri.
Li riportiamo tutti e tre insieme, perché dialogano tra loro e sono comparsi in collegamento tra loro sulla stessa testata.
La redazione
Non prendiamo ad esempio i maschi
Iole Natoli racconta su Noi Donne il progetto realizzato da due donne di fare un figlio insieme con l’utilizzo dell’uovo di una, fecondato da un uomo estraneo e impiantato nell’utero dell’altra. Lamenta una discriminazione rispetto alla doppia genitorialità che ottengono le coppie di maschi omosessuali da parte delle istituzioni italiane. Non ottengono la doppia maternità, se ho ben compreso (Iole Natoli, 7 dicembre 22, Quella madre che non è madre è come un padre / Quando il diritto nega la realtà. I figli della coppia lesbica di Anghiari unita civilmente e la sentenza del Tribunale di Arezzo / Discriminazione verso le persone LGBT o in primo luogo verso le DONNE?)
Ho riserve sulla utilità di riflettere sulla discriminazione delle donne prendendo a modello le scelte dei maschi omosessuali. Si rischia di avvallare pratiche violente verso i bambini, come progettarne intenzionalmente la perdita della madre, e di promuovere soluzioni inutili da parte delle donne, perché la sostanza dell’amore di coppia e della responsabilità genitoriale non passa per forza attraverso la corporeità.
Ancora oggi si sottraggono bambini a chi si dimostra poco capace di occuparsene, ed è crudele, sarebbe meglio aiutare i genitori nel compito genitoriale. Nel caso di chi volontariamente procura una violenza al figlio, come la perdita di un genitore e specie della madre che lo culla per mesi, si potrebbe almeno paventare la perdita della genitorialità, dovendo qui parlare di giurisprudenza. Non trovo legittimo l’esercizio di una violenza solo perché la tecnica e il denaro la rendono possibile. E sento il peso di questa affermazione ma non vorrei sentirlo. Proibire è divenuto l’unico gesto che desta scandalo, mentre qualsiasi miseria o guerra o discriminazione è sopportabile se avviene di fatto; se avviene senza la nostra personale volontà. Basta essere distratti o disinteressati dal ragionare e il potere ci conduce tutti ad approfittarci di tecnologie che hanno ricadute sulle persone di cui non ci si occupa. Le hanno nella vita collettiva e nella cultura di ciascuno: come il prendere l’abitudine di pensarsi più potenti che limitati. È questo il vivere sopra i propri limiti che sempre più appare come il percorso umano di cui ci dovremmo preoccupare.
Il percorso di assuefarci alle realtà che giudichiamo nocive si accompagna alla nostra impotenza e forse anche alla brevità della nostra vita. Al disinteresse per quella di chi verrà, sentendola una loro responsabilità. Ma c’è un patimento in me nel dovermi continuamente adattare a nuove competenze obbligate, e nell’agire più velocemente le cose che un tempo era sufficiente fare in un tempo più lungo, come non finissi mai di dover lavorare e pensare e affrontare fatti nuovi che tendono a disconfermarmi. Leggo che non succede solo a me e sento l’indicazione prevalente del non farci sopra riflessioni, ma così perdiamo sicurezza in noi stessi. Il lasciar correre invece di affrontare le questioni diviene un’ educazione diversa e contraria a quella che nella storia e nella vita di ciascuna e ciascuno ha dato invece risultati importanti. È come se oggi ci si dovesse sbronzare senza fine.
Il disinteresse civico che ci fa delegare a ciascuno di fare quello che vuole è lo stesso che ci fa accettare ogni scelta purché sia sua, di altri, non nostra. Poi, dal momento che altri lo fanno lo dovremmo fare tutti: proprio questo ci viene detto ormai sempre più in grande: il mondo ci impone di fare ciò che non vorremmo e l’adeguarsi è divenuto un dovere.
Abbiamo delle responsabilità noi donne, per avere aperto una strada che respinge la paternità ma sembra molto più accettabile per via della tradizione che ci ha viste sostenere da sole la procreazione, nel disprezzo maschile della responsabilità generativa. Quasi a farne di necessità un punto di forza e di libertà.
È però facile comprendere come conoscere le proprie origini genetiche da parte dei figli sia fonte di completamento della storia personale e li renda più sicuri; così come il soddisfacimento di ricevere l’attaccamento affettivo proprio da coloro che ti hanno dato il patrimonio genetico incoraggi la loro capacità di relazione affettiva. Inoltre il miglioramento delle relazioni parentali è stato un investimento sociale progressivo; anche se nulla toglie alla capacità di divenire figli e genitori ad altri soggetti che si ingaggino e siano ingaggiati nella relazione da parte di infanti, di giovani e di adulti. Anche questa è la storia dell’umanità: i figli capitavano e metterli nella possibilità di sopravvivere li vedeva spesso crescere con persone occasionali. Ma perché volere dimenticare le cose acquisite ormai rispetto alla responsabilità sociale verso i bambini? E rispetto a quella personale che non vede nel figlio una proprietà, né pensa di esercitare un ruolo di poco conto nella loro formazione psichica?
Anche Il bambino che sia stato progettato senza padre perde una opportunità e una parte della sua storia, mi auguro non sia cosa grave per lui o lei, ma vedo grave la scelta di privarlo volontariamente di una possibile opportunità. Se così è andata la storia generativa di molti, non è per questo il caso di insistere.
Mentre l’ampliarsi delle relazioni affettive della coppia con figli e della relazione genitore e figlio rispetto a parenti, amici, incontri di affinità, è certamente arricchente ogni partecipante. Le responsabilità condivise diventano un esercizio educativo e un arricchimento affettivo socialmente positivo.
La manipolazione embrionale di cui Iole Natoli scrive, l’affetto che si vuole indurre nella gestante e che secondo le intenzioni dovrebbe confortare la coppia, parla di incertezze nell’osare la gravidanza da sola, di incertezza nel veder riconosciuto l’attaccamento per il figlio di un’altra, di incertezza anche negli esiti dell’unione.
È vero, la giurisprudenza potrebbe favorire una maggiore distribuzione di responsabilità tra persone consenzienti, non lo fa ad esempio nelle famiglie allargate che rimangono tali solo in virtù del consenso quotidiano sempre revocabile. E soprattutto lega la sorte di ogni nato strettamente a genitori e nonni senza una partecipazione sufficiente ad autonomizzare le persone da parte della comunità e delle istituzioni.
Adattarsi nella vita alle proprie perdite è fatto possibile, umano e come ogni accadimento, è anche fecondo di altre potenzialità che germinano. O valutiamo il nostro essere potenti nelle relazioni con i contesti o celebriamo l’impotenza che soltanto nella relazione di aiuto tecnico sostitutivo trova conforto. Mi pare un vittimismo esagerato, una dipendenza valorizzata, un cattivo esercizio educativo.
L’alienazione dalla corporeità, dalla radice che ci da vita, mi sembra la cosa più grave che rischia di capitare all’umanità nella costrizione all’esercizio della dipendenza nei confronti del potere. Non solo dobbiamo sopportare una guerra che non vogliamo, nella quale altri ci schierano tra i belligeranti, ma questo è sempre successo; di nuovo succede che l’insinuarsi della tecnologia nei nostri esercizi attivi ci priva sempre più delle nostre capacità di autonomia. Ci dicono di non muoverci, ci relazioniamo sempre meno in presenza, non agiamo ed un meccanismo lo fa per noi dalla nostra sedia, o nella nostra passeggiata: che può perdere però sempre più scopi. Le necessità creano incontri e la presenza dell’altro è al fine l’unica tranquillizzazione. Ci propongono di restare isolati e fermi per muovere le informazioni o altri al nostro posto, rendendo il contesto alfine zero. Ormai interviene l’obbligo istituzionale, questa è la schiavitù che risorge. Senza utilizzare gli strumenti esogeni perdiamo cittadinanza. Dobbiamo perdere attività, autonomia e relazioni perché altri trovino nella nostra schiavitù motivo di guadagno e di risparmio.
Comprendo come la tecnologia che rende più facili le azioni di informazione e ricerca, molto più facili le comunicazioni commerciali, trovi porte aperte in ciascuno e ciascuna, soprattutto conquista la gratuità economica. Più difficile è pensare quali siano le conseguenze, anzi noioso e deludente. Il fatto è però che la tecnologia diviene una natura con la quale si cresce e comunque ci si sviluppa nel pensare se stesse/i e la propria vita, le proprie attività e identità, distaccandoci dal corpo e dalle personali limitate capacità. Inscriverci nei nostri limiti ci rende umani, consapevoli di limiti che ci rassicurano. Evaderli ci lascia soli, senza storia, senza esempi, molto più dipendenti dagli altri di quanto non lo sono state le nostre relazioni nel passato. Le relazioni automatiche ci rispondono e ci comandano. Non siamo noi ad inventare quello che ci serve, assumiamo dal potere economico e politico qualche cosa che ad altri serve e ci facciamo modellare, proprio nel mentre abbiamo desiderato invece di avere più potere personale.
Le donne io penso debbano impegnarsi nello spegnere Prometeo e non abbracciare l’intenzione d’essere onnipotenti, libere dalla natura, dalla costruzione biologica. Il potere si autodistrugge come i giovanissimi amici di Greta ci dicono. Non facilitiamo il potere tecnologico nell’invadere le nostre capacità. Diveniamo responsabili dei nostri limiti, sono le nostre risorse potenziali. Le relazioni con noi stessi e gli altri sono piene di potenza proprio nell’esercizio di fondarsi sui propri limiti.
Fare i conti con la natura – che il patriarcato ha interpretato come una risorsa inesauribile a sua disposizione, invece di accettare il confronto con forze che gli si opponevano e trovare accordi con queste e la loro capacità di ricrearsi in continui nuovi equilibri – è la grande svolta culturale che le donne aiutano a fare. Le donne a cui si è chiusa la bocca per secoli, portano la capacità corporea e relazionale utile ad accogliere i limiti che gli uomini non si sono dati. Il confronto con le donne fa ritrovare alla società una misura.
Oggi specialmente i giovani che sono cresciuti con capacità ricevute dalla tecnologia si considerano legati a questa, un tutt’uno naturale che permette loro di pensarsi quasi onnipotenti, di pensare cose che possono anche realizzare ma senza avere esperienza di che cosa comportino come ricadute su sé o altri. L’esperienza dei vecchi era una guida meno improvvida.
Procreazione e genitorialità
di Giovanna Cifoletti
Non sappiamo per quanto tempo ancora il ricorso alla FIV (fecondazione in vitro, ndr) sarà accessibile al grande pubblico. I costi per gli individui e i costi ecologici ingenti potranno presto rivelare l’aspetto “acrobatico” di queste pratiche per ora considerate di routine. Il fatto è che per questa, come per altre tecnologie come ad esempio la chirurgia estetica, si applicano due criteri che considero fuorvianti:
1) Se una pratica è possibile tecnicamente, allora deve essere considerato legittima e resa disponibile.
2) Se una pratica è disponibile e corrisponde a un mio desiderio (in effetti se una soluzione esiste essa è probabilmente frutto di una ricerca specifica in corrispondenza di quel desiderio), allora devo farne uso.
In questo modo le tecnologie che dovrebbero essere al servizio della libertà dell’individuo lo mettono invece in una situazione di scelta obbligata, di coazione. Si tratta di coazione anche perché accettare una soluzione monetariamente possibile diventa allora un modo per eludere la libertà di inventarsi una nuova soluzione, di crearsi un futuro sulla base di cambiamenti a livello simbolico e di relazione.
Ma torniamo ai criteri che inducono all’uso acritico delle tecnologie e torniamo anche alla procreazione assistita. Il primo criterio viene mitigato dalle legislazioni. Per esempio, è possibile tecnicamente determinare il sesso del nascituro se ci si sottopone a una FIV. Ma in Europa non è ammesso. Così si possono trovare facilmente in web soluzioni alternative in altri paesi. Mi permetto di aggiungere un aneddoto a questo proposito: io stessa da giovane ho avuto occasione di parlare alla psicologa del mio desiderio di avere una figlia piuttosto che un figlio. Mi ha allora incitato ad averlo mediante FIV, per poterne determinare il sesso. Già allora mi era sembrato che il gioco non valesse la candela: per esempio, se poi dopo tanti sforzi fosse nato comunque un maschio, mi sarei trovata in una situazione peggiore di quella di partenza, dovendo accettarla malgrado i tentativi per evitarla.
Analogamente la gravidanza per altri è esclusa dalle leggi europee. Ambedue queste limitazioni possono apparire restrizioni all’autodeterminazione. Personalmente le vedo invece come correttivi di un mercato medico che applica il taylorismo alla procreazione e quindi alla sua versione umana, la genitorialità; come dei necessari interventi dovuti a un legittimo controllo umano sull’uso indiscriminato delle tecnologie.
Il secondo criterio riguarda il consumatore della tecnologia. Nel caso di desideri che toccano una sfera intima e irrazionale della persona quale è quella della riproduzione, della sessualità e dell’amore, il consumatore è ancor più fragile e legittimato a dirsi: se posso, o posso permettermelo a costo di qualche accettabile sacrificio, allora devo soddisfare il mio desiderio. A maggior ragione una coppia sarà analogamente incitata o costretta moralmente a cercare nella tecnologia una soluzione esterna alla procreazione e alla genitorialità.
È probabile che il pianeta ci renda presto improponibili queste acrobazie su vasta scala; che ci costringa a prendere atto dei limiti naturali, o quel che ne resta, non tanto come ostacoli ma come occasione dell’uso dell’ingegno. Forse si potrebbe dire che all’uso delle tecnologie in un contesto di ingegno maschile si potrà sostituire un uso di esse secondo un ingegno femminile di adattamento.
Il caso emblematico della coppia di donne che attua una teoricamente perfetta divisione del lavoro di madre biologica in madre genetica e madre gestante solleva due tipi di questione, giuridica e di critica al patriarcato. Sul piano giuridico, certo non è automatico dire che ambedue sono le madri, perché finora nelle FIV eterologhe si riconosceva la maternità alla madre di gravidanza e la paternità a suo marito. Che questo non sia certo egalitario appare chiaro, tanto più che valeva anche nel caso il gamete maschile non fosse suo, e quindi la paternità puramente formale, mentre qui il gamete femminile è proprio della madre genetica. Ma la procreazione e la genitorialità non sono fatti per esser egalitari e neppure sono fatti per essere parcellizzati. Forse questo è un limite di cui bisogna prendere atto.
Per il momento le donne, e anche le coppie lesbiche, hanno il privilegio di poter avere un figlio con un intervento maschile ridotto al minimo. Ma è sempre stato così, e il desiderio della donna, o almeno il suo “perché no?” è da sempre una causa determinante della perpetuazione del genere umano.
Diverso è il caso delle coppie maschili, per le quali il ricorso a pratiche esterne o a schiavitù esterne sembra l’unica soluzione.
Rispetto a questo, voglio ancora ricordare che i due criteri precisati sopra sono eminentemente sociali, determinati da questo mondo, con le sue regole di mercato.
La genetica è in fondo una scienza recente. Il DNA è diventato la base del sistema giuridico della procreazione. In questo l’impianto del diritto romano si è modificato. Il diritto romano era certo patriarcale, ma di fronte all’incertezza genetica introduceva una soluzione umana, l’adozione. Cerchiamo di non fare passi indietro, anche in senso patriarcale.
Voglio soprattutto ricordare che la genetica, può rassicurare i figli e i genitori, ma non è l’unico modo per farlo, per costituire un’origine definita. La scelta personale, il “riconoscimento” individuale e sociale allo stato puro, come è l’adozione, è anch’essa una forte rassicurazione sull’essere al mondo desiderati, voluti, cercati.
Fermo restando che ogni caso è a sé e non intendo minimamente criticare la coppia in questione, vorrei sottolineare che le due donne hanno preso a prestito un modello maschile di procreazione, del solo gamete. Proprio perché donne potrebbero sapere che questa è fatta di tanti aspetti fisici non istantanei, come l’ingresso del gamete nella nuova cellula embrionale. Va sottolineato che è questa prima cellula a costituire il patrimonio genetico, innovativo, mentre i due gameti non possono trasmettere tutto. Il senso genealogico della genetica è prettamente sociale. Già dal 2016 in Italia è possibile adottare il figlio del proprio partner; non vedo la necessità di introdurre una parcellizzazione che impedisce ad ambedue le madri di essere madri biologiche (l’una dà solo un gamete in un processo medicalizzato, l’altra porta un embrione estraneo) volendo dare ad ambedue questo titolo giuridico.
Va anche detta una cosa molto concreta: non ha senso che, in Italia, le coppie maschili abbiano problemi a realizzare i loro desideri di paternità: barche e barche di minori africani e orientali approdano alle coste italiane. Senza taylorismo misogino, senza schiavismo, adottandoli risolverebbero un vasto problema sociale.
E la Natura?
di Alfonso Navarra
Tutti i ragionamenti fin qui svolti da Antonella Nappi e Giovanna Cifoletti, a mio parere, andrebbero associati ad una riflessione più profonda, ruotante sulla domanda: e la Natura?
Possiamo pensare ad una tecnologia che, invece di correggere, dal punto di vista dei desideri umani, qualche “stortura” della nostra formazione biologica, si proponga di stravolgerne ogni limite e logica?
Qual è la destinazione ultima di certe ricerche, non è il caso di chiederselo? Vogliamo arrivare a fabbricare figlie e figli del tutto artificiali, con la semplice manipolazione del DNA in laboratorio?
E se invece mettessimo dei “paletti” subito, partendo dalla presa d’atto che la nostra condizione umana è frutto di 3,5 miliardi di anni di evoluzione di un unico ecosistema vivente? La dovremmo ignorare per le fantasie niente affatto innocenti e neutrali di tecnocrati più o meno illuminati?
Sappiamo che le scienze mediche e biologiche già oggi stanno lavorando a progetti di “soldati perfetti”, per le capacità di integrarsi con i contesti informatici, quindi dalle reazioni subitanee impossibili per l’essere umano “naturale”.
(Per approfondire consiglio un capitolo in proposito del libro del generale Fabio Mini, intitolato “Che guerra sarà”, Il Mulino, 2017).
Ci mancherebbe che avallassimo la possibilità di costruire in laboratorio eserciti di questi soldati, senza né madri né padri, magari cyborg che integrano parti organiche con parti meccaniche.
Non si tratterà di fantascienza (la guerra in Ucraina è forse fantasia?), se non ci impegneremo socialmente a dare il disco rosso, proprio sulla base di una considerazione di controllo democratico sulla scienza e sulla tecnologia, che riprendo dall’intervento di Giovanna Cifoletti:
«È probabile che il Pianeta ci renda presto improponibili queste acrobazie su vasta scala; che ci costringa a prendere atto dei limiti naturali, non tanto come ostacoli, ma come occasione dell’uso dell’ingegno. Forse si potrebbe dire che all’uso delle tecnologie in un contesto di ingegno maschile (orientato al sistema della potenza, del profitto illimitato, della guerra, aggiungerei io), si potrà sostituire un ingegno femminile di adattamento».
(ND NoiDonne, 5 gennaio 2023, https://www.noidonne.org/focus-attualita/index.php)