5 Aprile 2023
Per amore del mondo

Fuorigioco, un movimento che crea conflitto un conflitto che rimette in gioco

di Sara Bigardi e Livia Alga


Essere in fuorigioco non è di per sé un’infrazione. Secondo le regole del calcio, il fuorigioco è una condizione, meglio: una posizione. Tre sono gli elementi che la determinano: la posizione dell’attaccante, del pallone, e di chi difende. La regola vuole impedire che l’attaccante sosti sola oltre la linea dei difensori nei pressi della porta avversaria, quando le viene passata la palla. Più precisamente: una giocatrice è in fuorigioco quando si trova nella metà campo avversaria, quando tra lei e la porta si trovano meno di due giocatrici avversarie (portiere inclusa), e prende parte attiva all’azione, toccando la palla, o traendo vantaggio dalla sua posizione.

Questione di attimi, centimetri, questione di linee. Io non ho mai visto questa linea sul campo. È una linea invisibile, chi guarda la partita la immagina. Non avevo idea che il campo da calcio avesse delle linee oltre quelle tracciate in bianco che ne delimitano il perimetro, le aree, il centro. E invece, ci sono sempre delle linee invisibili che regolano i territori in cui giochiamo, note spesso solo agli esperti o ai nativi. Imparare a giocare significa imparare a vedere le linee invisibili.

Una linea immaginaria è una linea che può esistere e non esistere. È la flessibilità di una separazione. È una linea fatta da corpi in movimento, per questo è mobile. Non è una linea del paesaggio. È una linea d’ombra che si crea tra chi difende e chi attacca. Il fuorigioco è una condizione del loro conflitto che ferma il gioco e richiede l’intervento esterno dell’arbitro, una punizione, un riequilibrio. Proprio perché si esaurisce nell’azione, il fuorigioco non è pienamente teorizzabile: da qui la difficoltà di spiegarlo in modo esplicito e chiaro. Difficoltà aggravata dal fatto che alla norma, con il tempo, sono stati aggiunti una serie di commi di non facile interpretazione. Tutto questo, oltre a creare una confusione tale da indurre l’IFAB (International Football Association Board) e la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) a sperimentare la moviola in campo, rende discrezionali le valutazioni e la lettura della posizione di fuorigioco: trovarsi in linea o non in linea, prima o dopo “quella” linea invisibile.1

Il fuorigioco non è una teoria, ma una tattica, anzi un insieme di tattiche pensate e organizzate per dare vita a movimenti che creano conflitto. Questo insieme di tattiche favoriscono una postura liminare, sempre disposta a esporsi, tempi e movimenti sincronici, invitando a leggere con attenzione il complesso situazionale, smarcamenti e inserimenti non prevedibili. Il fuorigioco invita ad agire facendo uno “scarto”.2 Secondo Françoise Jullien «fare uno scarto significa uscire dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò che è convenzionale. In breve, vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove».3

Una tattica, non una strategia, perché non prevede schemi collaudati a priori o del tutto predeterminati. Il comportamento tattico è inventivo, rischioso: si concretizza in una serie di iniziative che devono essere decise rapidamente in una situazione caratterizzata da un notevole grado di incertezza. È questione di velocità: un passo avanti della difesa nel momento “giusto”, e tutte ferme: è fuorigioco. La difesa infatti può attuare la trappola del fuorigioco per bloccare sul nascere l’azione offensiva avversaria, recuperare palla e guadagnare spazio. Il fatto che esista la possibilità di utilizzare la tattica del fuorigioco permette alla squadra che difende di “rimanere corta”, talmente compatta da impedire agli avversari di avvicinarsi alla porta. In questo modo durante la fase di non possesso palla si riducono le dimensioni del campo, «sempre troppo grandi quando si tratta di difendere».4 Poi, come tutte le tattiche, c’è la possibilità di trovare delle contromisure per eluderla. Una di queste è il gioco corale e aperto sulle fasce: si tratta di creare una situazione di grande respiro, in una manovra avvolgente che non dia tempo alle avversarie di risalire velocemente e lasciarti così in fuorigioco.5 Dove sta la lealtà di un conflitto? Se penso al fuorigioco mi sembra in sé una regola ingiusta. La giocatrice è riuscita ad arrivare, grazie a passaggi e scambi ben riusciti, vicino alla porta e viene bloccata da una norma. Si ritrova in una posizione potenzialmente vincente che, essendo riconosciuta come problematica, viene censurata. È la tua voglia di vincere che ti fa pensare in questo modo, o forse il disagio o la frustrazione di non potere andare liberamente, senza ostacoli, verso ciò che desideri? Io credo che il fuorigioco sia la regola che per eccellenza rende il gioco, gioco. Sembra paradossale che “fuorigioco”, un’espressione apparentemente così chiara nell’indicare la fine, l’esterno del gioco, l’esclusione definitiva, così vicina alla formula “essere fuori dai giochi”,6 indichi, invece, secondo me, proprio il contrario. Lo scopo di questa norma è infatti quello di rendere il gioco più avvincente e meno prevedibile, obbligandoti a riprendere il gioco, a pensare un altro movimento, a negoziare ancora con l’avversaria perché la relazione sia più viva possibile. Come ti sentivi quando finivi in fuorigioco? Sono sempre tornata dal fuorigioco, sorridendo. Un sorriso sarcastico perché sai di esserti spinta oltre, di avere superato il limite. E che il gioco riprende.

Fuorigioco è una rubrica di tattiche, movimenti e conflitti. Raccoglie interviste e racconti autobiografici di vissuti sportivi da un punto di vista non strettamente agonistico. Intende valorizzare pratiche sportive come esperienze di condivisione, trasformazione e potenziamento in cui i corpi sono pienamente in gioco. Fuorigioco è uno spazio per parlare delle dinamiche di gruppo nei giochi di squadra, dei non detti, delle relazioni dentro e fuori gli spogliatoi, dei vissuti emotivi in campo nel corpo a corpo con le altre, le compagne e le avversarie. Per giocare bisogna avere o assumere un ruolo. Quanto costa viverlo? Come giochiamo in un ruolo che non sentiamo congeniale? Che relazione si stabilisce con il maschile (allenatore, società, terna arbitrale, pubblico)? Come ci autorappresentiamo come sportive all’interno della squadra e fuori? Diciamo che giochiamo per passione. Ma di chi o di cosa lo esplicitiamo raramente.

Questa rubrica è la proposta di un’alternativa filosofico-esperienziale ai discorsi circolanti sulle modalità di vivere lo sport da parte delle donne. Dopo anni di inattività dal calcio, quest’estate mi è venuta l’idea di creare una squadra di calcetto. Pensavo fosse un fuoco fatuo, visto che è sempre più difficile conciliare gli impegni quotidiani con una attività sportiva serale, soprattutto d’inverno. Invece le cose sono andate diversamente: la squadra gioca ogni settimana da un anno. Pensando al freddo, volevamo premiarci con una felpa, così, con una amica, sono andata a chiedere supporto al titolare di un bar, chiedendogli esplicitamente di farci da sponsor.

“Ascolta, noi abbiamo una squadra di calcetto, ci daresti una mano per farci una muta per l’inverno?”. “Che tristezza una squadra di calcetto femminile!”, è stata la sua risposta. Anch’io una volta pensavo che giocare a calcetto fosse triste, vuoi mettere il calcio a undici? Il campo largo, il gioco in profondità, il lancio lungo, le accelerazioni, le verticalizzazioni, il fuorigioco! Tutto questo nel calcetto non esiste. Con il tempo non mi sono ricreduta, ma ho scoperto le potenzialità che il gioco a cinque offre, e mi diverto ancora, in modo diverso. “Ti capisco, ho giocato a calcio per tanti anni, il calcetto è un’altra cosa”. “Sinceramente mi fa tristezza una squadra femminile qualsiasi tipo di calcio pratichi”. Sì, avevo capito, idiota. Non ho ribattuto perché mi sono mancate le parole. Me ne sono andata. In quel momento ero impreparata a confrontarmi con una posizione come la sua, ma posso parlare a lungo della prestazione fisica, del talento, dell’eleganza e delle intuizioni delle donne in campo.

Nell’universo discorsivo mainstream, mediatico, escluse dal business che il calcio è perlopiù diventato7, le donne che giocano sono poco note, o rientrano in un confronto svalutante con il maschile. Donne che giocano a calcio suscitano ancora curiosità, ilarità e, a volte, come ha ribadito il mio interlocutore, tristezza. Lo sport che praticano rimane in una dimensione di svago, spazio di mero divertimento, spazio alieno di cui spesso non si interroga il senso. O si scade nella promozione della partecipazione e della valorizzazione del femminile in una tendenza omologante al maschile, oppure negli stereotipi della calciatrice, e della sportiva in generale, come eccezione perlopiù sexy.

L’intento di questa rubrica è creare nuove narrazioni, che accolgano esperienze e pratiche che si sottraggono al linguaggio del simbolico dominante di cui la cultura italiana è impregnata.

Siamo consapevoli che, come sostiene Silvia Jop, «la soluzione non si possa esaurire in uno spazio confinato in cui discutere il rapporto tra le donne e il calcio. Va sradicato il dato per scontato che il calcio è uno sport maschile che di tanto in tanto praticano anche alcune donne».8 La giornalista propone di farci promotrici di «una risemantizzazione della narrazione complessiva dell’universo calcistico», e propone «una riqualificazione a partire dalla matrice: rimbalziamo assieme».9

La rubrica è un tentativo di rimessa in gioco, a partire da una posizione di dislocamento, di pensieri e pratiche che tendono a non scadere né nello scimmiottamento di comportamenti già esistenti, né nella logica dell’astraente neutralità.

Lo sport spesso è espressione di sogni. Non a caso in tante abbiamo sognato di diventare calciatrici.

Recentemente alcune ragazze hanno voluto portare all’attenzione, con web serie, festival e tornei autogestiti, la loro passione di giocatrici e il disagio di giocare uno sport ancora emblema della virilità (S&C: Sesso&Calcio, di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato, su web channel repubblica.itA qualcuna piace il calcio, prodotto da Stanza 101, racconta la squadra della Res Roma, Equipe Les dégommeuses, transfemifestesportiu). Le citiamo per dire che non siamo sole in questa operazione di risignificazione delle pratiche sportive, ma anche perché una delle puntate di S&C: Sesso&Calcio di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato si intitola “Cosa è il fuorigioco?”. C’è un pregiudizio condiviso che rivendica la comprensione del fuorigioco solo da parte degli uomini: le donne sarebbero riluttanti -incapaci- a capire la regola. Senza falsa retorica, potremmo scardinare questo senso comune con un’azione simbolica significativa: ripartiamo dal fuorigioco.


Note:

  1. «Una regola pilastro (ha appena compiuto 90 anni) del calcio – scrive Francesco Ceniti su La Gazzetta dello sport– è stata snaturata e depenalizzata con il solo scopo di favorire qualche rete in più». Sono stati introdotti una serie di elementi di valutazione che hanno fatto perdere quello che era «lo spirito originario dell’offside che non lasciava margini di dubbio: sei davanti ai difensori? Gioco da interrompere. Sei in linea oppure dietro? Si può continuare». Francesco Ceniti, “Un rompicapo inapplicabile. Il fuorigioco è da cambiare”, La Gazzetta dello sport, 16.01.2015
  2. Françoise Jullien, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, a cura di Marcello Ghilardi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
  3. Ivi, pp. 45-46.
  4. Walter Bragagnolo, Marco Gaburro, Paolo Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, Calzetti & Mariucci, Ponte San Giovanni (PG), 2004, p. 204.
  5. «Avvolgere significa condurre attorno circolarmente. Nel caso calcistico il condurre attorno va visto come orientare la propria manovra in zone di campo adiacenti alla concentrazione difensiva degli avversari che, essendo raggruppati per difendere la zona del tiro in porta, lasciano libere le fasce laterali. Si possono distinguere due tipi di avvolgimento: uno basso e uno alto, a seconda che l’azione sia condotta con trame di gioco dove le traiettorie del pallone sono basse oppure con passaggi alti», W. Bragagnolo, M. Gaburro, P. Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, cit., p. 145.
  6. “Fuorigioco” si intitola un documentario di Davide Vigore e Domenico Rizzo sulla vita del calciatore Maurizio Schillaci, cugino di Salvatore, noto come Totò, l’eroe di Italia ’90. «Oggi Maurizio Schillaci ha 52 anni, è un barbone che chiede l’elemosina alla Stazione centrale di Palermo, dorme in un treno abbandonato e non ha più sogni. Lo hanno scovato due giovani registi siciliani, Davide Vigore e Domenico Rizzo, che sulla sua storia hanno realizzato il docufilm: Fuorigioco», in Lucio Luca, “La Storia”, Repubblica, 1.12. 2014). L’intervista a Davide Vigore si può leggere al link:http://www.loraquotidiano.it/2014/11/21/maurizio-schillaci-da-star-a-barbone-il-film-sul-calciatore- dimenticato13495/
  7. Tranne poche eccezioni (calcio, basket, motociclismo, golf e pugilato), lo sport In Italia è dilettantistico, cioè lo si pratica per diletto. Ma se per gli sport menzionati, gli uomini sono dei professionisti, le donne, in nessuna disciplina sportiva, lo sono. Questo significa che per loro lo sport non può essere una fonte principale di reddito: un lavoro. Alle donne atlete è imposto per legge il dilettantismo: la legge 91 del 1981, che regola il professionismo sportivo, esclude di fatto le donne.
  8. Silvia Jop, freelance writer, collaboratrice giornalistica e attualmente coordinatrice redazionale presso “Il lavoro culturale”, Su Fùtbologia: riflessioni sparse in brevi accenni autobiografici, consultabile online a questo link: http://www.lavoroculturale.org/su-futbologia-riflessioni-sparse-in-brevi-accenni-autobiografici/. Questa riflessione fa parte di un interessante dibattito sorto intorno al convegno di Fùtbologia: «Considerato che il livello del discorso sul calcio in Italia è molto basso e il sistema del business globale del calcio è nella merda fin sopra i capelli, da tempo ci divertiamo meno. Però abbiamo un piano: una tre giorni per ripensare il calcio»: httt://blog.futbologia.org/.


(Per amore del mondo, n.13, 2015)

Print Friendly, PDF & Email