di Andrea Sceresini, Giuseppe Borello, Matteo Delbò
In un seminterrato alla periferia di Tbilisi, in Georgia, ci sono una quindicina di ragazzi che parlano di politica. Hanno tra i diciotto e i trent’anni, vengono dalla Russia e sono tutti renitenti alla leva. La località esatta in cui si trovano deve restare segreta, perché molti dei presenti risultano iscritti nelle blacklist dell’Fsb, i servizi di sicurezza del Cremlino, e dal 24 febbraio 2022 i paesi dell’Asia centrale rigurgitano di spie e delatori.
I ragazzi, tuttavia, parlano liberamente, spesso alzando la voce e accapigliandosi tra di loro. Buona parte dei convenuti sono anarchici e hanno alle spalle soggiorni più o meno lunghi nelle patrie galere: per non essere spediti in trincea hanno dovuto attraversare illegalmente le montagne del Caucaso, spesso senza un solo rublo in tasca.
«I leader dell’opposizione dovrebbero studiare un piano per abbattere Putin e edificare la nuova Russia che verrà dopo di lui», osserva Oleg, diciannove anni, che tra tutti è uno dei più moderati. «Un piano? Lo sai – sogghigna Yuri – chi ce l’aveva un piano? Lenin, cazzo: lui sì che sapeva come si fa una rivoluzione! Lasciali perdere, quei bastardi di liberali che se la spassano all’estero! La nuova Russia, se mai ci sarà, dovranno costruirla i lavoratori russi, e unicamente con le loro forze». Se gli chiedi perché non hanno voluto andare soldati, sia Yuri che Oleg risponderanno la stessa cosa: questo conflitto è stato voluto dai grandi oligarchi e dalla borghesia, che prima ti sfrutta in tempo di pace e poi ti manda al massacro quando è l’ora di fare la guerra.
Anche Ivan la pensa allo stesso modo. Solo che Ivan non è russo, ma ucraino: oggi vive in Italia, ha quarant’anni e viene da Kharkiv, dove un anno e mezzo fa hanno iniziato a piovere le bombe. «Oggi chi finisce a combattere al fronte sono soprattutto i più disgraziati, quelli che non hanno i soldi per andarsene – dice – o buoni agganci per farsi dispensare dal servizio militare. Ecco, io non credo che da questo scannamento tra pezzenti potrà mai nascere qualcosa di buono, né per noi né per il popolo russo, con il quale peraltro siamo sempre stati affratellati».
Così, coerentemente con le proprie idee, Ivan ha deciso di lasciare il Paese ed è fuggito in Europa occidentale. Anche il suo non è stato un viaggio facile, perché dal 24 febbraio 2022 la legge ucraina vieta l’espatrio a tutti gli uomini tra i diciotto e i sessant’anni. «Mi è stato fornito il contatto di uno smuggler – ricorda l’uomo – il quale in cambio di duemilacinquecento dollari avrebbe corrotto le guardie di frontiera al confine con la Moldavia. La sera stabilita mi sono acquattato in un boschetto in attesa del segnale, dopodiché ho attraversato di corsa la terra di nessuno e mi sono ritrovato in un grande campo illuminato dalla luna. È stato allora che ho ricevuto l’ultimo messaggio del trafficante, il quale nel frattempo aveva seguito i miei spostamenti via Gps: “Bene, ora respira, sei già in salvo”».
Quello della diserzione è certamente uno dei temi meno raccontati di questo conflitto, soprattutto sui media italiani. Eppure non si tratta di un fenomeno marginale – tutt’altro. Sarebbero molte decine di migliaia i giovani russi e ucraini che hanno lasciato i rispettivi paesi per evitare di finire sotto le armi: un piccolo esercito di refrattari, i quali – per usare un’espressione cara al vecchio leader con baffi e pizzetto di cui sopra – “la pace l’hanno già votata coi loro piedi”. Le notizie a riguardo sono generalmente poco pubblicizzate, forse anche perché poco si intonano con gli echi bipartisan della propaganda bellicista.
Tuttavia basta cercare con la giusta attenzione: riferisce la Bbc, ad esempio, che nell’inverno scorso almeno novanta cittadini ucraini sarebbero morti congelati nel tentativo di passare illegalmente il confine romeno. Pochi mesi prima, nel settembre 2022, la coda di fuggitivi alla frontiera russo-georgiana avrebbe raggiunto una lunghezza di dieci chilometri. Fece un certo scalpore, durante le prime fasi del conflitto, anche l’annuncio della diserzione di massa di due battaglioni dell’esercito di Kiev – il secondo e il terzo della settantanovesima brigata – i cui soldati abbandonarono le trincee dopo giorni di massacro lanciando un accorato appello su Facebook: “Ci hanno usati come carne da macello, mentre gli ufficiali scappavano dal campo di battaglia! Popolo, intervieni tu, perché altrimenti ci ingabbieranno tutti!”
A Tbilisi da diversi mesi l’organizzazione “Go by the forest”, che aiuta i militari russi a fuggire dal fronte e mettersi in salvo all’estero: «È impressionante il numero di coloro che ci contattano. Tanti soldati, pur di farsi trasportare nelle retrovie – racconta Darya Berg, una delle fondatrici – arrivano a ferirsi a vicenda sparandosi un colpo di kalashnikov nelle gambe. Poi, una volta guariti, cercano di raggiungere il confine con il Kazakistan, che è lungo settemila chilometri e può essere valicato in diversi punti. In genere è lì che li recuperiamo».
Per ogni esule in divisa, ci sono poi decine di individui che la fuga la stanno ancora progettando, o che per varie ragioni non sono mai riusciti a metterla in pratica. È il caso di Vasilij, quarantacinque anni, che da diciotto mesi vive letteralmente barricato nel suo appartamento di Kharkiv. Non esce mai, nemmeno per fare la spesa, perché il rischio di essere fermati per strada e finire arruolati a forza è sempre più alto: «La televisione continua a ripeterci – sorride affacciandosi alla finestra – che tutti gli ucraini sono pronti a farsi scannare. Ma se veramente le cose stanno così, allora che bisogno hanno di abbrancare il primo che passa e spedirlo al fronte?»
La stessa domanda se la pongono certamente anche dall’altra parte del confine, dove di recente hanno fatto scandalo le foto del figlio del ministro della difesa Šojgu, Sheba, che mentre i suoi coetanei crepano tra trincee e reticolati se la spassa allegramente sulle spiagge della Turchia. È probabile che in qualche seminterrato di Tbilisi, tra le macchie d’umidità e il fumo di sigaretta, si stia dibattendo anche di questo.
Dov’è la vittoria, il doc
Lunedì 7 agosto, alle 23.30 su Rai 3, Il fattore umano – programma che monitora lo scarso rispetto dei diritti umani nel mondo – propone un documentario di di Giuseppe Borello, Andrea Sceresini e Matteo Del Bo, Dov’è la vittoria, che racconta da un lato l’addestramento Usa delle reclute ucraine, dall’altro le storie di giovani russi e ucraini che sono fuggiti o che tentano di fuggire dalla logica delle trincee, denunciando come in questo conflitto – così come in tutti i conflitti – a pagare il prezzo più alto siano sempre i più disgraziati, mentre altri, al sicuro nelle retrovie, continuano come sempre ad arricchirsi. la voce narrante è quella di Hanna Bilobrova, una pacifista rimasta tale nonostante abbia portato in macchina per ore il cadavere del marito – il regista e antropologo lituano Mantas Kvedaravicius – ucciso dai russi durante l’assedio di Mariupol.
(il manifesto, 5 agosto 2023)