23 Novembre 2023
Il Foglio

“Gli uomini fanno molta fatica a parlare dei loro vissuti”. Parla il sociologo Marco Deriu

di Marina Terragni


Marco Deriu è sociologo e insegna all’Università di Parma. Da più di trent’anni si occupa di violenza degli uomini, è stato tra i fondatori di Maschile Plurale e ha promosso moltissime iniziative su questo tema.

«Oggi», dice, «in Italia ci sono almeno una trentina di gruppi di uomini che lavorano sottotraccia sulla faccenda. Riflessioni che tra alti e bassi hanno contribuito a mettere a fuoco il fatto che la violenza subita dalle donne è una questione maschile».

Sembra che sia diventato l’approccio mainstream… 

«Sì, ormai è difficile svicolare. Ma va anche detto che il contesto è cambiato: serve una visione dinamica quando ragioni su questo tema. Ci sono forme di violenza patriarcale che vengono supportate o perfino ordinate e regolate da alcune culture: per esempio nei matrimoni forzati, come abbiamo visto nel caso della ragazza pachistana Saman. Nella vicenda di Giulia invece anche la famiglia di Filippo Turetta appare travolta dalla tragedia».

Però il padre di lui ha minimizzato alcuni dettagli rivelatori: la gelosia ossessiva, il fatto che controllasse il cellulare della ragazza.

«Senz’altro resistono elementi della cultura patriarcale, però c’è stata una trasformazione. Il più oggi si gioca all’interno della relazione. Gli uomini sono sempre stati dipendenti dalle donne della loro vita ma il peso di questa dipendenza veniva contenuto dal contesto e dal racconto patriarcale. Oggi non soltanto le donne sono più libere, ma gli uomini sono meno supportati dal contesto. La partner non può più essere percepita come inferiore e dipendente perché è quasi sempre più equilibrata, più risolta, più forte. Le relazioni dovrebbero essere paritarie, nessuno prova più a dire il contrario, ma tanti uomini non ci stanno dentro».

E quindi?

«Quindi bisogna portare l’attenzione sulle dinamiche relazionali vive, si deve riflettere su questo».

Gli uomini non lo fanno volentieri. Ogni donna lo sa.

«Gli uomini fanno molta fatica a parlare dei loro vissuti. La rabbia e il passaggio all’atto violento dipendono da questa incapacità di fare i conti con la propria interiorità. E poi quasi sempre le situazioni di crisi sentimentale vengono vissute in estrema solitudine. Le donne sono più abituate a condividere tra loro mentre l’intimità tra uomini è pressoché inesistente».

Anche gli uomini che in questi giorni prendono pubblicamente la parola sulla violenza maschile non partono dai propri vissuti. Parlano solo degli altri.

«Sì, intervengono a difendere le donne dalla violenza altrui. Ogni uomo ha esperienza della propria vulnerabilità di fronte alla violenza, sa di poterla agire o di averla agita, ma si difende dietro il paternalismo protettivo. E quando proietti la colpa della violenza sugli altri paradossalmente sei più esposto al rischio di essere violento».

È così difficile ammettere di essere parte del problema?

«È una consapevolezza che genera profonda angoscia. Devi essere molto motivato per ragionare a partire da te, devi avere in vista un guadagno che questa angoscia la compensi. E il guadagno non può che essere poter attingere a un vissuto più ricco di sé come uomini e poter vivere relazioni meno misere, liberate dall’ossessione del potere e del controllo».

Servono a qualcosa i centri di recupero dei violenti?

«Possono essere una risorsa, ma in un contesto di interventi più ampio. Anche perché intercettano solo una minima parte del problema».

E invece i “corsi di affettività” nelle scuole? Oggi li chiedono tutti come una panacea.

«Si tratta di capire di che cosa stiamo parlando. Se l’idea è l’ora di affettività – e non vedo che cos’altro possa essere – non mi pare un’innovazione decisiva. Anche perché poi abbiamo il problema di chi educa gli educatori».

Se è vero che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?

«Quella con la madre onnipotente è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».


(Il Foglio, 23 novembre 2023)

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