di Ida Dominijanni
La gloria dell’Ucraina non è ancora morta,
né la volontà.
Ancora su di noi, giovani fratelli,
il destino sorriderà
(Inno nazionale ucraino)
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta
Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa
Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte
Siam pronti alla morte, Italia chiamò
(Inno nazionale italiano)
Sii gloriosa, nostra patria libera,
unione eterna di popoli fratelli
(Inno nazionale della Federazione russa)
Klondike, “Restare a casa”, è un film della regista ucraina Maryna El Gombach, premiato a gennaio 2022 al Sundance Film Festival e a febbraio, pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, alla Berlinale. È un film duro e terribile. Racconta la storia di Irka, una donna incinta che vive con suo marito e suo fratello in un villaggio del Donbass quando, nel 2014, comincia la guerra civile fra l’esercito nazionale ucraino e la minoranza separatista sostenuta dai russi. I tre abitano in una casa isolata immersa in un paesaggio desolato, che si trasforma essa stessa in teatro di guerra quando il crollo di un muro di cinta fa saltare ogni confine fra dentro e fuori, fra pubblico e privato, fra personale e politico, fra normalità quotidiana ed emergenza. Non è solo che la guerra entra in casa, come nelle immagini che dal giorno dall’invasione russa documentano i bombardamenti, gli edifici sventrati, gli scantinati trasformati in rifugi antimissile; nel film la casa diventa propriamente il set della guerra, di una guerra che sconfina a sua volta dall’esterno all’interno della famiglia stessa, fra il marito della protagonista che sta con i separatisti e il fratello che sta con l’esercito ucraino. Irka invece non sta con nessuno. Tenta per tutto il film di mantenere la sua regia delle cose domestiche, impartendo compiti ai due uomini che però sfuggono al suo controllo per obbedire al richiamo delle armi. All’inizio delle ostilità il marito le consiglia di trasferirsi in città per partorire in ospedale, ma lei non si muove, decide testardamente di restare lì, di resistere e di partorire in casa senza l’aiuto di nessuno.
Le cose precipitano, i due uomini finiscono ammazzati insieme dai soldati russi, Irka resta sola nella sua casa-set e da sola mette al mondo suo figlio, in una lunga sequenza finale che è una presa diretta volutamente iperrealistica del travaglio, del parto e del taglio del cordone ombelicale, e in cui salta un ulteriore confine, quello fra umano e animale. Il bambino, un cucciolo minuscolo, viene finalmente alla luce, e si potrebbe pensare che questa nascita voglia essere un lieto fine, la vittoria della vita sulla morte e del materno sulla distruttività maschile. Invece no. L’effetto, al contrario, è di un materno che ridotto a ostinazione biologica – a “nuda riproduzione”, potremmo dire parafrasando l’abusata “nuda vita” di Agamben – perde senso. Ed è di un crescendo in cui la forza della resistenza rischia di diventare altrettanto cieca di quella dell’aggressione a cui risponde.
Restare, andare
Come tutti i buoni film, Klondike tocca l’inconscio e lo mobilita, attivando e autorizzando associazioni libere e domande scomode che la razionalità censura. Così almeno è accaduto a me per entrambi gli effetti che ho appena menzionato, ovvero per il senso che nel film assumono la resistenza e il materno, nonché il nesso che in qualche modo li lega. Comincio dalla resistenza, con una premessa, che riguarda la mia remora ad accettare l’analogia fra la difesa degli ucraini dall’invasione russa e la lotta partigiana da cui è nata la nostra Repubblica, analogia che nel discorso pubblico italiano è stata decisiva per dettare i termini non tanto della solidarietà quanto dell’identificazione con la causa ucraina. La resistenza italiana ebbe com’è noto due facce, quella della guerra di liberazione nazionale dall’invasione tedesca e quella della guerra civile di liberazione dal regime fascista; divise il popolo italiano fra fascisti e antifascisti, nonché il fronte antifascista al suo interno, e fu non malgrado ma grazie a queste divisioni che nacque una Repubblica antifascista e pluralista, costitutivamente e positivamente contrassegnata dalla diversificazione ideologica e dal conflitto politico. Diverso è il caso della resistenza ucraina, dove la controfaccia dell’indubbio coraggio eroico di un popolo che si mobilita compattamente contro l’invasore è un nazionalismo senza eccezioni e senza dissenso, che non divide ma uniforma il popolo ucraino attorno al suo commander in chief e all’investimento identitario sulla propria terra, sulla propria lingua e sulla cancellazione della lingua del nemico, sul taglio drastico delle radici culturali che lo legano al popolo russo. E non è affatto automatico che questa passione identitaria e nazionalista preluda alla fioritura di una democrazia, come sostiene la narrativa mainstream ucraina e occidentale, o bisognerebbe almeno chiedersi di quale tipo di democrazia stia gettando le basi.
È precisamente il legame identitario con la propria terra e la propria casa il nucleo emozionale ambivalente di Klondike, dove la resistenza della protagonista si spinge fino a un punto di messa alla prova di sé che ci interroga non sui meriti riconosciuti ma sui limiti sottaciuti della resistenza tout court: qualunque resistenza, non solo quella ucraina – a me, ad esempio, è capitato di pormi domande analoghe su quella palestinese[1]. Fino a che punto la resistenza a ogni costo è moralmente superiore alla resa, o alla diserzione o all’esodo? C’è un punto in cui la resistenza dell’aggredito diventa simile o speculare alla violenza dell’aggressore, e soprattutto si trasforma in violenza su di sé o in un sacrificio di sé autodistruttivo, che è facile ma non saprei quanto morale incoraggiare e sostenere da lontano? La protagonista del film che per partorire a casa sua mette a rischio la nascita del figlio fa una scelta moralmente encomiabile o sarebbe più responsabile, per lei e per il nascituro, smettere di resistere, andarsene e partorire in condizioni più sicure? Chi potrebbe accusarla, in questo secondo caso, di essersi arresa, o di aver disertato?
Allo scoppio della guerra molte ucraine che avrebbero potuto andarsene hanno deciso, come Irka, di restare, a rischio della propria vita o per tutelare la vita degli anziani impossibilitati a muoversi. Ma molte altre hanno deciso invece di andarsene, portando con sé i figli e lasciando i mariti a combattere, a costo di diventare profughe a disposizione del mercato del lavoro marginale europeo. In un caso e nell’altro la narrazione mediatica ha seguito e convalidato gli stereotipi di genere più scontati, descrivendo quelle che restano come eroiche guardiane della casa e quelle che vanno come madri mosse dalla disperazione, senza indagare le ragioni soggettive reali dell’una e dell’altra scelta. Ma quali che siano queste ragioni, la scelta di chi va non è meno coraggiosa o meno moralmente encomiabile di quella di chi resta, e verosimilmente non è motivata solo dalla disperazione ma anche dal rifiuto di una situazione insostenibile. “La guerra non ha un volto di donna”, ha scritto Svetlana Aleksievic[2], e noi sappiamo dalla sua straordinaria raccolta di testimonianze quanto la partecipazione delle donne sovietiche alla Seconda guerra mondiale abbia segnato indelebilmente la memoria femminile in quei due paesi, la Russia e l’Ucraina, allora fratelli e oggi lacerati da una guerra fratricida, rispetto alla quale la decisione di disertare andandosene non è meno significativa politicamente di quella di partecipare restando: come la storia del femminismo insegna, la separazione femminile dalla politica come dalla guerra fra uomini è sempre un taglio polemico nei confronti dell’ordine socio-simbolico vigente.
Non sappiamo e non sapremo mai, invece, quanti uomini, ucraini e russi, avrebbero scelto di andarsene e disertare se non fossero stati costretti a restare e combattere da una coscrizione obbligatoria e spietata in entrambi i loro paesi: le stime occidentali, molto approssimative, parlano di circa 400.000 russi e di 650.000 ucraini fra i 18 e i 64 anni. Ma quello che trapela dalle inchieste sul campo racconta di una resistenza maschile diffusa all’arruolamento forzoso tanto in Russia quanto in Ucraina, di proteste contro l’esaltazione dell’eroismo silenziate con la violenza, di fughe e diserzioni motivate con il rifiuto di “un massacro senza senso fra popoli fratelli” e sostenute da organizzazioni di volontari oltreconfine[3]. Ed è quanto basta per incrinare la compattezza nazionalista delle due propagande che si fronteggiano sul campo e nella sfera mediatica.
Vista dalla prospettiva non di chi resta e resiste ma di chi diserta e se ne va la guerra d’Ucraina cambia sensibilmente i suoi connotati, e diventa indicativa di una più generale tendenza all’esodo e alla sottrazione che nelle più svariate parti del mondo si va configurando come forma di rivolta, o quantomeno di rifiuto senza ritorno, contro condizioni di vita impraticabili e inaccettabili. Si scappa dalle guerre, dalle conseguenze delle guerre, dai dopoguerra senza pace, dai regimi liberticidi, dalla catastrofe climatica, dalle persecuzioni politiche e dalle oppressioni patriarcali, dalle identità imposte, dalla fame senza scampo e dalla povertà senza futuro, come dimostrano le masse di migranti, uomini e donne, che ogni giorno sfondano confini proibiti. Si fugge dal lavoro che divora la vita e dall’imperativo della prestazione che la colonizza, come dimostra l’ondata di “grandi dimissioni” innescata dalla pandemia che dagli Stati uniti rimbalza anche in Europa e in Italia, preceduta, già prima della pandemia, dalla pratica Tangping in Cina. E si secede da democrazie ormai in crisi cronica e cronicamente incapaci di mantenere le loro promesse, come dimostrano i tassi di astensionismo in crescita vertiginosa in paesi come l’Italia[4]. Sono forme di esodo di cui stentiamo a riconoscere la valenza politica, ma che si impongono laddove il potere, in guerra e in pace, diventa così autoreferenziale e sordo da rendere ininfluenti e neutralizzare le forme di protesta e di conflitto tradizionali che presuppongono ancora una qualche fiducia nella partecipazione e nella rappresentanza.
Figure del materno
Vengo alla questione del materno. La protagonista di Klondike resta e resiste, resiste e resta, legando la sua gravidanza alla sua casa e alla sua terra: è la figura di un materno che si fa garante della continuità fra il territorio e la specie, la proprietà e la procreazione, la nazione e la generatività, una continuità che nel film confina con il mostruoso.
Questa figura del materno non proviene solo dall’Ucraina: al contrario, è un indicatore saliente delle tendenze che accomunano trasversalmente i due campi in lotta che la logica della guerra vorrebbe divisi verticalmente. È una figura altrettanto presente nella Russia di Putin, dove l’ingiunzione a procreare e l’eroicizzazione della madre prolifica sono due pilastri di un “neoimperialismo biopolitico”, com’è stato definito, mosso dalla convinzione che la tendenza alla denatalità rappresenti una minaccia per la sicurezza della nazione, e volto a contrastarla da un lato con la rivalutazione del destino materno tradizionale, dall’altro con l’annessione e la cittadinanza forzosa di pezzi di popolazione ucraina, compresa l’ignobile pratica dei trasferimenti dei bambini in atto dal 2014 e intensificata dopo l’invasione[5]. Ma la stessa figura compare nel campo occidentale, si allunga da una sponda all’altra dell’Atlantico e fa i suoi giochi nella trasformazione dell’Unione europea che abbiamo conosciuto fin qui in quella che si affaccia sotto le insegne nazional-sovraniste. Non per caso la Polonia, il paese che esce più rafforzato dalla guerra in Ucraina e che ambisce a un ruolo egemonico nell’Europa futura, è stata nell’ultimo decennio la punta di diamante di una lotta senza quartiere alla possibilità per le donne di abortire, una lotta arrivata fino alla schedatura delle gravidanze e costata troppe vittime. Non per caso l’attacco all’aborto è stata la prima e principale bandierina piantata dalla Corte suprema americana a maggioranza trumpiana, con la conseguenza, in alcuni Stati, dello stesso rischio di schedature. E non per caso l’attacco all’aborto avanza anche in Italia, insieme con la glorificazione della madre come madre della nazione, chiamata a contrastare la denatalità e a scongiurare la “sostituzione etnica” minacciata dai migranti africani con la procreazione fra italiani bianchi: il tutto controfirmato da una donna che guida un partito denominato “Fratelli d’Italia” – un nome che è un programma, nonché una pista, come vedremo, per guardare anche fuori dai confini nazionali.
Dappertutto dunque è in atto un percorso a ritroso rispetto a quello compiuto dal femminismo dagli anni Sessanta del Novecento in poi. Col femminismo la maternità, da destino prescritto che era, è diventata scelta consapevole; oggi le politiche nazionaliste puntano a farla regredire da scelta a destino. Tanto più questo processo regressivo interroga il femminismo della differenza che notoriamente ha scommesso sulla risignificazione della madre, ovvero sulla possibilità di dissequestrarla dall’immaginario patriarcale per farne principio simbolico di genealogia, relazionalità, autorità e autorizzazione femminile: anche da questo punto di vista c’è una regressione, dal simbolico femminile all’immaginario patriarcale e nazionalista. Ed è un abbaglio pensare che fra la risignificazione femminista e la rivalutazione nazionalista del materno si possano aprire spazi di intesa – ad esempio, come qualcuna ha ipotizzato in Italia, sul terreno del rifiuto della maternità surrogata.
Al posto di Elena
Quando è in gioco il materno è in gioco la differenza sessuale ed è in gioco la donna, che tuttavia non è riconducibile solo alla madre. Nell’immaginario patriarcale c’è un nesso che le lega entrambe e immancabilmente, la donna e la madre, alla guerra, scindendone le figure e assegnando a ciascuna una funzione di supporto al sistema. Da un lato c’è la donna come preda, oscuro e idealizzato oggetto del desiderio, a copertura della pulsione di morte che muove irrazionalmente ogni guerra: nella guerra di Troia, ha scritto Simone Weil, di Elena non importava nulla a nessuno di coloro che se la contendevano salvo Paride, eppure lei fungeva da simbolo di una posta in gioco che “non poteva essere definita perché non c’era”, salvo rintracciarla nella radice delirante del potere[6]. Dall’altro lato c’è la madre, altrettanto idealizzata come garanzia di continuità della specie contro la stessa pulsione di morte, tanto più se si tratta di guerre condotte su base etnica o nazionalista: come scrisse Rada Ivekovic durante la guerra in Kosovo, “la reinvenzione fantasmatica di una comunità etno-nazionalista si basa sul delirio identitario della fratria maschile, che nell’aderire all’ordine patriarcale idealizza il corpo materno riducendolo a garanzia di purezza della razza o della nazione”, a costo di “una manomissione del tempo, che nei Balcani cancella almeno una generazione”.[7] Sono due topoi, la madre idealizzata e la donna oggetto del desiderio, che “manomettendo il tempo” ritornano uguali in tutte le guerre, ma che nel corso del tempo e delle generazioni subiscono anche interessanti variazioni.
Ancora Simone Weil, in Non ricominciamo la guerra di Troia, scrive che nelle guerre moderne “il ruolo di Elena è svolto da parole ornate di maiuscole”, usate di volta in volta per giustificare razionalmente l’uso della violenza e occultarne la radice irrazionale: siamo nel 1937 e a Simone l’intero lessico politico novecentesco – nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia – appare già svuotato di senso, un catalogo di “astrazioni cristallizzate” incapaci di cogliere il reale ma buone per essere ripetute “ammucchiando rovine su rovine” in loro nome[8]. L’intuizione di Weil coglie l’essenziale della funzione di quelle che oggi, con un termine edulcorato rispetto ai più appropriati “ideologia” e “propaganda”, vengono definite “narrative” delle guerre. Eppure dobbiamo constatare che nelle narrative delle guerre cui stiamo assistendo da trent’anni a questa parte l’evocazione delle donne come posta in gioco è ridiventata esplicita: al posto di Elena non ci sono solo “parole ornate di maiuscole”, ma anche nuove figure, e fantasmi, dell’immaginario maschile sulla donna. Forse perché nell’arco di tempo che ci separa dallo scritto di Simone Weil la libertà femminile si è dispiegata a tal punto da richiedere, da parte degli uomini, una reazione di riappropriazione del dominio perduto che passa anche per la gestione militarizzata del conflitto fra i sessi. Le guerre diventano così un termometro dello stato di salute, o meglio della deriva di crisi, del patriarcato. E domandarsi quali figure o quali fantasmi della donna vengono messi, di guerra in guerra, nel posto di Elena aiuta a fare luce sulle costanti ma anche sulle variazioni del patriarcato in guerra, e delle forme di patriarcato che si fanno la guerra fra loro.
Ai tempi della guerra nei Balcani, il posto di Elena era alquanto affollato. C’era in primo piano la donna dell’altro, preda di quel marchio d’infamia dei nazionalismi in lotta fra loro che sono i cosiddetti stupri etnici. C’erano, nell’immaginario dei paladini occidentali del Kosovo già allora ossessionati dalla denatalità, le profughe kosovare, incarnazione di un femminile arcaico e sofferente, corpo materno senza parola ma molto prolifico. E c’era il fantasma minaccioso di Monica Lewinsky, la giovane donna che durante il sexgate americano aveva costretto Bill Clinton a dire la verità sulla loro relazione sessuale via Internet e a mostrare così urbi et orbi le crepe di una sovranità patriarcale lesionata irreparabilmente dalla fine della separazione fra pubblico e privato: il re era nudo, e forse anche per questo tentava di rivestirsi con la divisa armata della spedizione “umanitaria” in Kosovo. Legittimata in nome dei diritti dei/delle kosovare conculcati dal dittatore serbo Milosevic, la guerra “umanitaria” divise il femminismo italiano e occidentale, fra quante dell’ideologia dei diritti si fidavano e quante ne diffidavano in quella come in altre circostanze[9].
Pochi anni dopo, nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale, il fantasma cambia: al posto di Elena c’è nientemeno che la libertà femminile, evidentemente diventata nel frattempo una conquista dilagante da addomesticare in qualche modo, nel nome della quale l’Occidente muove guerra all’Afghanistan e all’Iraq “per liberare le donne dal patriarcato islamico”. Parte consistente e decisiva della più ampia narrativa dello “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam, quella motivazione era falsa due volte: perché proiettava sul nemico “arcaico” il dominio patriarcale coprendone le permanenze all’interno dell’Occidente “moderno”, e perché, identificando la libertà femminile con la libertà occidentale, ignorava e mortificava la libertà femminile che esiste e circola anche nel mondo islamico. Anche in quel caso in femminismo si divise, fra quante in Occidentale aderirono alla narrativa dominante e quante in tutto il mondo la smontarono, mostrando gli elementi di trasversalità del patriarcato a est e a ovest, ricordando i limiti della libertà occidentale moderna disegnata sull’individuo neutro, valorizzando le pratiche di libertà femminile interne al mondo islamico: se la libertà femminile era posta in gioco noi femministe giocammo la partita, sottraendola alla colonizzazione da parte della retorica bellica e facendone al contrario la cartina di tornasole delle contraddizioni trasversali ai due fronti in guerra. Nuove contraddizioni emersero di contro anche in campo femminile: le donne-kamikaze, le madri che allevavano i figli a diventare kamikaze, e nel campo occidentale le zelanti soldatesse americane in carriera e le fotografie scioccanti di Lyndie England con il prigioniero iracheno al guinzaglio nella prigione di Abu Ghraib spazzarono via ogni residua illusione, peraltro da sempre malriposta, che le donne siano per natura e per storia estranee alla guerra o immuni dai suoi orrori, o che basti essere donna per fare la differenza[10].
Oggi il quadro è assai diverso, e il femminismo, italiano e non solo, è più taciturno, stretto fra la sua vocazione pacifista e l’ingiunzione martellante a sostenere e armare l’Ucraina, rappresentata per giunta come vittima dello stupro di un vecchio patriarca autocratico e spietato. La libertà femminile è scomparsa dalla rappresentazione e dalla legittimazione della guerra: sulla scena mediatica – che certo non coincide con la realtà ma contribuisce a plasmarla, tanto più in una guerra in cui siamo arruolate come spettatrici prima ancora che come cittadine – restano solo due sagome femminili, apparentemente in contrasto fra loro ma solidali nella loro funzione di supporto dell’immaginario patriarcale. Da una parte le vittime perdenti e doloranti che restano a guardia della casa e degli anziani o se ne vanno con i figli incolonnate verso un’esistenza degradata, vestite come capita, spettinate e senza trucco; dall’altra parte le combattenti intrepide e vincenti, che sostengono la causa della guerra dai vertici delle carriere politiche o giornalistiche senza scarto alcuno dal linguaggio maschile, e al tempo stesso sempre perfettamente in linea con i canoni estetici della femminilità patinata. È l’antica scotomizzazione fra vittime passivizzate ed emancipate cooptate, ma non è mai apparsa così estrema e polarizzata: al confronto della vicepremier ucraina più guerrafondaia di Zelensky, o della portavoce del ministero degli esteri russo più spregiudicata di Lavrov, le prime marines che vent’anni fa si arruolavano nell’esercito americano per apprendere l’alfabeto della guerra, o le prime kamikaze che prima di suicidarsi nel nome di Allah guardavano con rimpianto le vetrine dei negozi, sembrano delle dilettanti della cooptazione nell’universo valoriale della virilità. Quelle che combattono oggi al fianco degli uomini sono donne che ce l’hanno fatta: hanno rotto il famoso soffitto di cristallo, maneggiano potere, lottano con una convinzione ai limiti del fanatismo per la propria nazione. E hanno una inquietante controfigura nella ragazza ucraina con il kalashnikov in mano e il lecca-lecca in bocca fotografata in una delle prime e più emblematiche immagini di questa guerra, triste prova di una femminilizzazione della pedagogia dell’orrore che ci riporta all’educazione fondamentalista dei giovani soldati della jihad islamica in quella che vent’anni fa era considerata la barbarie contrapposta alla civiltà occidentale. Quale desiderio supporta quel kalashnikov?
Nel posto di Elena stavolta non c’è un’altra sagoma o un altro fantasma di donna. C’è un giovane uomo, Volodomyr Zelensky, che come Elena vive nascosto ma a differenza di Elena compare ovunque, dai parlamenti ai festival del cinema e dal Vaticano alla copertina di Vogue, ovunque diffonde e pubblicizza la causa del “popolo più eroico e coraggioso del mondo”, come lui stesso lo definisce, con discorsi ogni volta perfettamente tagliati sulla circostanza e sul contesto, e ovunque incarna questa causa nella sua propria persona, piccola ma forte e scolpita dalla fitness, come traspare dalla t-shirt da cui non si separa mai, nemmeno quando va in visita dal Papa portandogli in dono una Madonna incisa su un giubbotto antiproiettile invece che un ramoscello d’ulivo. È lui il nuovo eroe di cui tutti improvvisamente sembrano aver bisogno a dispetto di Brecht, ed è lui l’oggetto d’investimento di quel desiderio di guerra che all’indomani dell’invasione russa ha pervaso l’Europa tracimando dalle penne dei più accreditati opinion maker nostrani. E si può capire perché lo sia. Agli occhi dei leader europei di democrazie sfigurate, erose dall’invecchiamento della popolazione e dalla precarizzazione delle giovani generazioni, “disordinate” dalla libertà delle donne e della galassia queer, ossessionate dall’arrivo dei e delle migranti, assediate da élite ciniche dall’alto e da popoli disorientati dal basso, il leader ucraino appare come una insperata cura ricostituente di un ordine politico, sociale e simbolico assai pericolante.
È giovane, sbandiera virtù ottocentesche (per fortuna) dimenticate come il coraggio e l’eroismo virili e le scaglia contro il vecchio padre-patriarca russo, chiamando a raccolta tutti gli altri giovani maschi e promuovendo le giovani donne disposte a fare proprie e rilanciare le virtù virili. Ha trasformato le sue doti attoriali in doti di leadership, riuscendo come forse nessun altro in quella fusione di comunicazione e politica cui aspirano tutti i leader post-novecenteschi. Guida un paese attraversato da una somma di contraddizioni originate congiuntamente dalla fine del socialismo sovietico e dalla governance neoliberale europea, ma le nasconde sotto la compattezza della nazione e del nazionalismo, come del resto fanno o tentano di fare le destre sovraniste dei paesi europei occidentali. Mette al bando i partiti d’opposizione, ma si intesta, nel plauso generale dell’Occidente, la titolarità della difesa della frontiera della democrazia in una guerra ultimativa contro l’autocrazia russa. È la figura che rappresenta come meglio non si potrebbe i sogni di ripresa di una virilità vacillante che non dà più identità, di una democrazia deformata che incorpora e metabolizza i veleni dell’autocrazia contro cui combatte, e di un patriarcato agli sgoccioli che si riorganizza come fratriarcato vincente. Il quadro è più complicato e più mosso di quello dipinto dalla narrativa occidentale mainstream, che delinea o sottintende l’ennesimo scontro di civiltà fra un patriarcato russo oscurantista da una parte e una democrazia paritaria ispirata alla gender equality dall’altro. Soprattutto se consideriamo che russi e ucraini erano un solo popolo fino a prima della guerra, sembra di assistere piuttosto al classico dispositivo edipico-patriarcale dell’uccisione del padre da parte di una fratria di giovani uomini pronti a consegnarlo alla storia per riformulare un patto socio-simbolico post- patriarcale, modernizzato e “democratizzato”, e basato non più sull’esclusione delle donne ma sulla loro divisione fra vittime perdenti e protagoniste vincenti, e sulla cooptazione di queste ultime nella piramide del potere.
Questo a me pare di poter vedere sul teatro di guerra ma da fuori, con uno sguardo condizionato dalla crisi delle democrazie occidentali e allarmato per il desiderio di guerra che le percorre. Ma da fuori non si vede tutto e si può vedere male; e infatti da dentro c’è chi ci accusa di presumere di vedere ma di non vedere niente. Una sosta nel dibattito femminista ucraino, russo e degli altri paesi post-sovietici aggiunge ulteriori e decisivi elementi al quadro.
Femminismi
La più decisa critica femminista interna al proprio campo è emersa in Russia, cioè nel paese aggressore, mentre è stata assai più flebile, comprensibilmente, nel paese aggredito e, meno comprensibilmente, nel fronte democratico occidentale che lo sostiene. All’indomani dell’occupazione dell’Ucraina, le femministe russe sono state fra i primi gruppi d’opposizione al regime a mobilitarsi contro la guerra e contro Putin, con un testo che gli attribuiva tutte le responsabilità dell’invasione (nonché della guerra nel Donbass in quanto conseguenza dell’annessione della Crimea), e chiamava le femministe di tutto il mondo a fare leva sulla “enorme forza mediatica e culturale” acquisita negli anni per trasformarla in peso politico di opposizione “alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo”, ricordando come questi termini siano legati fra loro e, nella Russia di Putin e Kirill, connessi all’introduzione di “valori tradizionali” (eterosessualità obbligatoria, disuguaglianza di genere, sfruttamento delle donne) e alla repressione di chi non vi si conforma[11].
L’appello delle femministe russe è stato raccolto e rilanciato il 17 marzo 2022 da un secondo testo, firmato da oltre 150 femministe di tutto il mondo, che alla condanna di Putin aggiungeva quella delle “corresponsabilità” della Nato e del suo “espansionismo globale”, nonché il rigetto delle “decisioni che comportano l’aggiunta di più armi al conflitto e l’aumento delle spese di guerra”; e si schierava “con il popolo ucraino che vuole ristabilire la pace e chiedere un cessate il fuoco, e con i cittadini russi mobilitati che chiedono di fermare l’invasione militare”[12]. Una posizione ineccepibile – contro l’aggressione russa e contro una risposta all’aggressione orientata all’escalation invece che alla risoluzione del conflitto – duramente rigettata però da un terzo testo, stavolta di femministe ucraine, che rivendicava “il diritto di resistere” e il ruolo attivo delle donne, “al fronte e a casa”, nelle lotte di resistenza, “dall’Algeria al Vietnam, dalla Siria alla Palestina, dal Kurdistan all’Ucraina”[13]. Questo fondamentale diritto all’autodifesa degli/delle oppresse verrebbe negato, secondo le firmatarie, da “un pacifismo astratto che condanna tutte le parti in guerra e che porta a soluzioni irresponsabili”: occorre invece, prosegue il testo, tenere ferma “la differenza essenziale fra la violenza come mezzo di oppressione e come mezzo legittimo di autodifesa”. Non solo: gli obiettivi della lotta femminista contro il patriarcato, la discriminazione sistemica, il razzismo e lo sfruttamento permangono in tempo di guerra come in tempo di pace, ma “l’invasione russa ci obbliga a concentrarci sull’obiettivo generale della difesa della società ucraina: la lotta per la sopravvivenza, per i diritti e le libertà fondamentali, per l’autodeterminazione politica” viene prima di tutto il resto[14].
La filosofa femminista ucraina Irina Zherebkina, voce molto attiva nel dibattito pubblico del suo paese sulla guerra, ha criticato entrambi questi manifesti, sostenendo che né l’uno né l’altro propone una prospettiva teorica femminista autonoma di opposizione radicale alla guerra e che ciò che li distingue è soltanto una differenza tattica, ovvero la postura anti-Nato nel primo caso, la postura nazionalista nel secondo. Nei confronti del femminismo nazionalista, tuttavia, Zherebkina è due volte critica, denunciandone non solo gli esiti nefasti nella congiuntura della guerra, ma anche la complicità costitutiva con il femminismo neo-liberale postsovietico, l’esaltazione acritica dei valori democratici, l’orientamento alla spartizione del potere più che alla sovversione dell’ordine patriarcale. Laddove secondo Zherebkina un pacifismo femminista radicale e autonomo dovrebbe battersi, nella scia tracciata da Judith Butler nei suoi testi sul dopo-11 settembre e ribadita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, per una solidarietà e una mobilitazione transnazionali, “basata sui valori femministi dell’interdipendenza e della cura” e dotata di un immaginario politico potente, “in grado di contrastare le fantasie fasciste di destra che oggi minacciano la democrazia e la pace”[15].
Come non essere d’accordo? Salvo che però le posizioni di Butler sulla guerra in Ucraina sono solo apparentemente le stesse di quelle del dopo-11 settembre, anzi a ben vedere la mettono in contraddizione con sé stessa. Allora, la filosofia butleriana della vulnerabilità e dell’interdipendenza e la sua “critica della violenza etica” avevano un valore tanto più dirompente in quanto erano volti a contestare la contestazione della reazione bellica degli Stati uniti all’aggressione subìta: l’appello “scandaloso” di Butler era rivolto al suo paese affinché interrompesse la spirale della violenza evitando una reazione ritorsiva, nazionalistica e legittimata su base morale agli attentati dell’11 settembre, ed elaborando la scoperta della propria vulnerabilità come un dato comune all’umanità nel mondo globalizzato[16]. Che è un problema analogo a quello che ci pone oggi non tanto la sacrosanta resistenza ucraina all’invasione russa, quanto il suo sostegno armato e incapace di mediazione politica da parte del fronte occidentale. Sorprendentemente, però, nel caso dell’Ucraina la critica filosofica di Butler alla logica della violenza come logica fallocentrica mossa dalla pulsione di morte rimane, e così pure l’appello alla tessitura di pratiche politiche transnazionali contrapposte all’individualismo militarista maschile e ai rinascenti nazionalismi autoritari, ma il suo posizionamento politico cambia: non c’è traccia di critica della risposta armata occidentale all’invasione russa, lo schieramento a favore dell’Ucraina dev’essere incondizionato e in quanto femministe “dobbiamo riunirci per opporci alla violenza di Putin, indipendentemente dalle nostre opinioni sulla Nato e simili”[17].
Va notato tuttavia che questa posizione pur nettamente ed esplicitamente filo-ucraina non basta a evitare a Butler gli strali appuntiti del femminismo ucraino nazionalista. Nella Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine tempisticamente convocata on line da Butler stessa, Irina Zherebkina e Sabine Hark il 9 maggio 2022[18], Tereza Hendl accusa la filosofa americana di “pacifismo epistemicamente ingiusto” e “ottimismo idealistico” solo perché Butler, intervistata sulla guerra da un giornale catalano[19], aveva osato auspicare una rivolta democratica della popolazione e dell’esercito russi contro “la guerra di Putin” invece di invocare a gran voce armi per la resistenza ucraina, che per Hendl è l’unica forma di solidarietà femminista accettabile: “Una donna stuprata ha diritto all’autodifesa e non deve arrendersi al violentatore. Invece l’Ucraina dovrebbe accettare una vita “pacifica” sotto occupazione militare piuttosto che fare una lotta di liberazione armata?”. Chiunque si discosti o problematizzi questa prospettiva della “decolonizzazione” dell’Ucraina dall’imperialismo russo ricade nel “pacifismo epistemicamente ingiusto”, che consiste nell’ignorare le voci e le esigenze delle ucraine e nel perpetrare la visione suprematista e a sua volta coloniale della sinistra e del femminismo occidentali, sempre pronti a denunciare l’imperialismo americano ma a chiudere due occhi su quello russo, il quale peraltro non è un marchio esclusivo di Putin bensì “un’eredità socio-storica della Russia, della sua cultura e di gran parte della sua popolazione”. Risibili risultano in quest’ottica, va da sé, quelle femministe occidentali – tra le quali, per quello che vale, la sottoscritta – che “vedono le guerre come giochi maschili fra due ‘cattivi’, da cui la richiesta che entrambe le parti disarmino” [20].
Si evincono facilmente da questa posizione di Hendl (e di altre come lei[21]) le linee di frattura che dividono il femminismo nazionalista da quello transnazionale, e che le stesse organizzatrici della Conferenza individuano nell’editoriale di presentazione degli Atti[22]. Da una parte le donne vengono arruolate nella causa nazionale, individuata come condizione di sopravvivenza che viene prima di tutto il resto; dall’altra parte, prima di tutto il resto c’è l’appartenenza alla comunità femminista internazionale, e a partire da questo posizionamento una critica “della nazione, dello stato-nazione e dello stato” che non può essere sacrificata nemmeno alle sacrosante ragioni della causa ucraina[23]. Da una parte vige la logica amico-nemico, cui anche la solidarietà dev’essere sottoposta, diventando così una solidarietà escludente, destinata solo alle ucraine e ostile alle “vicine di casa” russe e bielorusse, assegnate senza eccezioni al campo avverso; dall’altra parte la solidarietà si esprime in una tessitura relazionale che sfida e frantuma la logica amico-nemico, come nella pratica rivendicata di intensificazione delle relazioni fra ucraine, russe e bielorusse “per attraversare e demolire i confini militarizzati da Putin”[24]. Da una parte l’identità è data dai confini nazionali e si rafforza nella lotta per ripristinarne l’integrità; dall’altra parte c’è la consapevolezza che “l’identità delle terre di confine è incerta e ibrida e può portare all’accettazione dell’eterogeneità ma anche all’insicurezza e al fascismo”[25]. Da una parte c’è una pace condizionata alla vittoria, ovvero alla riconquista del pieno possesso dei territori usurpati dall’invasore, e dunque alla continuazione della guerra; dall’altra parte c’è l’avvertimento realistico che più lunga e dolorosa è una guerra, più “contaminata e violenta” sarà la pace, come insegna il dopoguerra serbo carico “di risentimento, negazione del passato, stabilità senza riconciliazione” e “saturo di una storia immaginaria in cui vittime e carnefici si scambiano di posto”[26].
Il mantra della “gender equality”
Da una parte – infine ma non ultimo – c’è una denuncia rancorosa della frattura est-ovest che finisce col riprodurla e rafforzarla anche fra donne, dall’altra parte c’è il tentativo di superarla smontando i dispositivi che l’hanno prodotta dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica in poi, e che chiamano in causa pesantemente le responsabilità dell’Unione europea nella maturazione delle condizioni della guerra di oggi. Per tutte le partecipanti al dibattito, sullo sfondo permane, irrisolto, il nodo dello smarrimento e della crisi d’identità innescati dal crollo dell’Urss nelle società post-socialiste, sospese fra la paura di un ritorno del passato sovietico e un desiderio di europeizzazione presto frustrato dalle modalità di allargamento a Est dell’Unione. Ma mentre per il femminismo nazionalista il problema è sostanzialmente culturale e morale – la “ingiustizia epistemica” di cui le ucraine si sentono vittime e incolpano le femministe occidentali –, per il femminismo transnazionale le responsabilità risiedono nelle scelte politiche nazionali e sovranazionali che dall’89 in poi, a onta della retorica sull’unificazione dell’Europa, hanno riprodotto la frattura est/ovest, trovando precisamente nelle politiche di genere un laboratorio proficuo di esercizio e sperimentazione. Sotto accusa passa in primo luogo la “terapia d’urto” neoliberale, imposta da Ovest ma con il consenso degli apparati di stato postsocialisti dell’Est, che dopo il crollo dell’Urss ha trasformato, in Russia e negli ex paesi satelliti, l’economia sociale in economia di mercato, sostituendo il mito sovietico dell’”uomo nuovo” (e dell’emancipazione femminile) con quello dell’individuo competitivo (e di una millantata “gender equality”). In secondo luogo, le conseguenti politiche del mercato del lavoro, strategicamente incentrate sulla creazione di un esercito di riserva di manodopera femminile migrante e precaria, proveniente dai paesi dell’Est e destinata a quei lavori di cura e assistenza lasciati scoperti dallo smantellamento, a Est e a Ovest, dello stato sociale. Infine, le politiche della natalità, dove alle limitazioni dell’aborto (realizzate, come in Polonia, e Ungheria, o programmate, come in Russia, o minacciate, come in Italia) si affianca lo sviluppo delle tecnologie riproduttive, come in Ucraina, dove la fiorente industria di maternità surrogata si configura come una vera e propria esternalizzazione della riproduzione delle coppie committenti dell’Europa occidentale, e gode di un vantaggio competitivo rispetto a quella di paesi come l’India e la Tailandia basato sull’offerta di una garanzia di bianchezza delle madri surrogate e dei bambini commissionati[27].
Il mantra europeista e neoliberale della gender equality, intonato peraltro sempre e solo riguardo alle carriere dirigenziali e politiche, nasconde una realtà fatta di sfruttamento e gerarchizzazione delle donne, che incrocia e gerarchizza le linee del genere, della classe e del colore e disegna nuove linee di attrito fra Est e Ovest. Le donne si ritrovano al centro dei processi di ridefinizione del vecchio continente basati su disuguaglianze spietate e insostenibili, ma cementate dalla paura del fantasma degli “altri” e delle “altre” che premono ai suoi confini. E l’analisi femminista, allenata com’è alla prospettiva intersezionale, scava dove la prospettiva geopolitica tradizionale non vede, e mette a fuoco le linee reali di frattura e di conflitto che le narrative nazionaliste occultano. E che non domandano l’arruolamento femminile al servizio, magari militare, delle nazioni di appartenenza, bensì la costruzione di reti di relazione transnazionali fra i paesi postsovietici e fra questi ultimi e i paesi europei occidentali – costruzione di cui peraltro la Conferenza in questione, con la sua pratica di ascolto reciproco fra situazioni diverse e posizioni divergenti, è un esempio eccellente.
Fratelli
Tuttavia qualcosa manca a questo pur fecondo dibattito femminista, e questo qualcosa ha a che fare con un uso troppo generico della categoria di patriarcato, che rischia di annegare nella continuità ripetitiva del dominio maschile le contraddizioni che emergono al suo interno e le discontinuità che vi ha introdotto e vi introduce la libertà delle donne e degli altri soggetti che alla norma patriarcale non si conformano. Detto in altri termini, se sono evidenti le marcature maschili e patriarcali di questa come di tutte le guerre, prima fra tutte la ritornante regolarità del tentativo di ripristinare i ruoli di genere tradizionali, rilevare questa marcatura non basta, e si rischia anzi di rafforzarla e darle più credito di quanto non ne abbia se non si rilevano al contempo le crepe e le contraddizioni interne al patriarcato che questa guerra rivela, le reazioni di rimessa violente ma impotenti del patriarcato alla libertà femminile che non cessa di affermarsi, le alleanze che il patriarcato stringe, modificandosi, con gli assetti politici, tutti traballanti, che in questa guerra sono in gioco: il neoimperialismo russo con la sua nostalgia di un impossibile ritorno al passato, l’impero americano minacciato dal proprio declino, le democrazie europee vacillanti, a ovest e a est, sotto il tiro incrociato del neoliberalismo, del populismo e dei rigurgiti di fascismo. L’urgenza di un’analisi accurata del presente si salda qui con il compito teorico di arricchire la riscoperta della categoria sempreverde di “patriarcato” da parte del femminismo di ultima generazione con gli apporti del pensiero della differenza italiano sulla modificabilità politica del patriarcato stesso, e sui segnali della sua crisi terminale[28].
Contestualizzata in questa cornice, la sintomatologia della guerra d’Ucraina dice qualcosa di più e di diverso da una riconferma, un ritorno o un ripristino del patriarcato. C’è un desiderio maschile di guerra sintomatico di una volontà di potenza lesionata, che ricorre alla guerra perché non riesce più a governare in pace e rispolvera l’eroismo a compensazione di una virilità destabilizzata. C’è un’impotenza politica e diplomatica generalizzata che sostituisce lo scambio di armi allo scambio di parole, e riproduce quel collasso della parola e della capacità di simbolizzazione che la teoria psicoanalitica associa all’eclissi della legge paterna. Ci sono due vecchi e consumati uomini potenti, Biden e Putin, nostalgici di un ordine bipolare perduto che tentano di ripristinare con l’antica logica amico-nemico, ma a cui tuttavia, a differenza dei loro predecessori del secolo scorso, non riescono più a dare né forma né senso. Sono tutti indicatori del fatto che la saldatura fra ordine simbolico e ordine politico che ha retto la storia della modernità è saltata, e che legge del padre non fa più ordine, né politico né geopolitico, in un mondo attraversato, a onta dei muri innalzati e dei confini militarizzati, da flussi di soggetti che a quella legge si oppongono o che ne prescindono, in primo luogo il flusso della politica delle donne che non si arresta né nei regimi democratici né in quelli autoritari[29].
A questi padri decaduti tentano di sostituirsi, in attesa di consumarne le spoglie nella migliore tradizione edipica, fratrie altrettanto violente ma modernizzate, che non hanno più bisogno di escludere le donne come alle origini dello Stato moderno, bensì di includerle almeno in parte nella gestione del potere, di arruolarle come madri garanti della continuità della nazione e della stirpe, e talvolta perfino di cedere loro lo scettro della leadership: purché sia nel nome dei fratelli, com’è scritto negli inni nazionali e com’è ribadito nella sigla di un partito nato nel sempre solerte laboratorio politico italiano. La più trascurata ma anche la più ambivalente delle tre bandiere del 1789 che inaugurarono la modernità, quella della fratellanza, torna a mostrare la sua controfaccia misogina. Alle origini del femminismo fu precisamente la scoperta di questa controfaccia a farci separare dai nostri fratelli rivoluzionari. Quel gesto originario da cui nacque la politica delle donne torna a indicare tanto più oggi, in tempi di fratrie reazionarie, la strada dell’esodo e della diserzione.
(Diotima. Per amore del mondo. Edizione 19/2023)
[1] Mentre licenzio questo articolo l’efferato attacco di Hamas ai civili israeliani e l’altrettanto efferata risposta israeliana nella striscia di Gaza riaprono lo storico scenario del conflitto israelo-palestinese con un grado inedito di violenza e tragicità. In questo scenario le domande che pongo in queste pagine sulla resistenza, il restare e l’andare si pongono ovviamente anch’esse a un livello diverso e più alto di drammaticità che richiedono un’analisi ulteriore. Almeno sul punto dell’incremento di violenza senza politica che caratterizza i conflitti globali contemporanei rinvio comunque a Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano 2007.
[2] Svetlana Aleksievic, La guerra non ha un volto di donna, trad. it. Di Sergio Rapetti, Giunti/Bompianoi 2022.
[3] Cfr. il docufilm Where is victory , trasmesso da Raitre il 7/8/2023 all’interno del ciclo Il fattore umano di Raffaele Pusceddu e Luigi Montebello e ora disponibile su Raiplay (https://www.raiplay.it/video/2023/08/Where-is-victory—Original-language—Il-Fattore-Umano—Puntata-del-07082023-9376cfdf-c3bb-4bce-9b5e-ab8462833ea3.html). La voce narrante è della regista e attrice lituana Hanna Bilobrova, compagna del regista e antropologo anch’egli lituano Mantas Kvedaravicius, ucciso molto probabilmente dai russi nell’assedio di Mariupol. Bilobrova ne ha recuperato e trasportato a casa il cadavere, e ne ha poi completato il film Mariupolis 2 sulla vita quotidiana durante la guerra, presentato al Festival di Cannes nel maggio 2022.
[4] La variegata fenomenologia dell’esodo e la sua valenza politica sono state al centro di due seminari organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti e da Ordet con il titolo La dimensione dell’esodo. Etica della diserzione, il primo a Como il 9 marzo 2023 con Franco Bifo Berardi, Zasha Colah, Alisa Del Re, Christian Marazzi, Cesare Pietroiusti (https://vimeo.com/807476618), il secondo a Milano l’11 maggio con Federico Campagna, Cristina Morini, Liliana Moro, Annie Ratti.
[5] Cfr. Sasha Talaver, Russia’s War Is a failed Answer to Its Demographic Crisis, Jacobin 23/4/2023, https://jacobin.com/2023/04/russia-ukraine-war-putin-demographic-crisis-social-reproduction-biopolitical-imperialism. Quanto al trasferimento forzoso dei minori ucraini in Russia, sarebbero 700.000 i bambini trasferiti dal 2014 in poi, dei quali 260.000 dall’inizio della guerra: cfr. Paolo Mieli, Vaticano-Russia, la tela possibile, “Corriere della Sera”, 18/9/2023.
[6] Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943, a cura di Donatella Zazzi, Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 56.
[7] Rada Ivekovic, Effetti collaterali del patriarcato, “il manifesto” 22/5/1999.
[8] Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia cit., p. 57.
[9] Cfr. il mio Chi c’era stavolta al posto di Elena, “il manifesto” 10/6/1999.
[10] Sulla posta in gioco della libertà femminile nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale scatenate dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati uniti rinvio al mio 2001. Un archivio. L’11 settembre, le war on terror, la caccia ai virus, manifestolibri, Roma 2021. Ma sul pacifismo femminista di fronte a tutte le guerre che si sono succedute dalla fine della Guerra fredda a oggi cfr. Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, manifestolibri 2022.
[11] Resistenza femminista contro la guerra, Fermare l’aggressione di Putin, “Jacobin Italia” 28/2/2022, https://jacobinitalia.it/contro-laggressione-militare-di-putin/
[12] Aa.Vv., Feminists Against War. A manifesto, 17/3/2022, https://spectrejournal.com/feminist-resistance-against-war/
[13] The Feminist Initiative Group, The Right to resist. A feminist manifesto, 7/7/2022, https://commons.com.ua/en/right-resist-feminist-manifesto/
[14] Questa posizione, compreso l’attacco al “pacifismo astratto”, verrà ribadita altre volte – ad esempio in un più recente Appello della società civile ucraina ai pacifisti, cofirmato dalla Rete femminista ucraina e da altre associazioni (https://www.vita.it/lappello-della-societa-civile-ucraina-ai-pacifisti-nulla-su-di-noi-senza-di-noi/) – e ricalca gli argomenti polemici di alcune voci della sinistra radicale ucraina nei confronti della sinistra radicale e dei movimenti pacifisti occidentali, accusati di “westplaining” e segnatamente di non sacrificare la critica alla Nato e ai governi occidentali alla priorità della lotta contro Putin.
[15] Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina, “Pulpmagazine”, 3 agosto 2022, https://www.pulplibri.it/the-feminist-point-of-view-on-the-ukrainian-war-interview-with/Irina.
[16] Cfr. di Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, a cura di Olivia Guaraldo, Roma 2004; Critica della violenza etica, trad. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006; Frames of War, Verso, London-New York 2009.
[17] Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina cit. Zerebkina cita il brano qui riportato dalla lettera inviata da Butler alla Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine del 9 maggio 2022, di cui parlerò ampiamente fra poco. Ma per la posizione di Butler sulla guerra in Ucraina cfr. Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms”, “ara.cat”, 28/4/2022, https://en.ara.cat/culture/am-hopeful-that-the-russian-army-will-lay-down-its-arms_128_4353851.html
[18] Transnational Feminist Solidarity with Ukrainian Feminists, on-line Meeting, May 9, 2022”. Gli Atti della Conferenza sono stati pubblicati e sono disponibili in PDF su “Gender Studies” 1922, n. 26, http://kcgs.net.ua/gurnal/26/. Ne raccomando la lettura, aldilà di quello che ne restituisce la mia breve rassegna.
[19] Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms” cit.
[20] Tereza Hendl, Towards Accounting for Russian Imperialism and Building Meaningful Transnational Feminist Solidarity with Ukraine,“Gender Studies” cit.
[21] Cfr. ad esempio Agnieska Graff, Solidarity with Ukraine, or: Why East-West still Matters to Feminism, “Gender Studies” cit, pp. 57-61, che ha parole particolarmente dure nei confronti del femminismo italiano.
[22] Queste tre linee di frattura sono evidenziate anche dalle tre organizzatrici della Conferenza, nel loro editoriale di presentazione degli Atti, Feminism, War, Solidarity, “Gender Studies” cit., pp. 5-8.
[23] Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine – How do We Stay Together in a State of Exception, Invasion and War?, “Gender Studies” cit., p. 51. Ma v. anche quanto scrive la filosofa serba Adriana Zaharijevic (The Principle is to Always Cross Borders, “Gender Studies” cit., pp.106-7) a partire dalla sua esperienza di contestazione del regime di Milosevic negli anni Novanta: “Diventare femminista in Serbia mi ha insegnato che patriottismo e femminismo sono opposti. Come scrive Virginia Woolf, noi, in quanto donne, non abbiamo patria, il che vuol dire rifiutarsi di elevare frontiere in noi stesse, posizionarsi contro l’ordine basato sul sangue, sul suolo, sulla nostra stessa patria, contro gli antenati e i guerrieri”. E continua: “Faccio fatica, anche di fronte alla imperdonabile invasione dell’Ucraina, ad aver fiducia nel proprio, nella nazione, nello Stato”.
[24] Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine cit., p.50-51.
[25] Ivi, p. 52.
[26] Adriana Zaharijevic, The Principle is to Always Cross Borders cit., pp. 105-106.
[27] Cfr. Olena Lyubchenko, Neoliberal Reconstruction of Ukraine: A Social Reproduction Analysis, “Gender Studies” cit., pp. 21-48.
[28] Sulla riscoperta della categoria di “patriarcato” nel femminismo di ultima generazione cfr. Charlotte Higgins, The age of patriarchy: how an unfashionable idea became a rallying cry for feminism today, “The Guardian” 2018, 22/1. Sui segnali della fine del patriarcato messi in luce dal femminismo della differenza italiano, Aa. Vv, È accaduto non per caso, “Sottosopra” rosso, gennaio 1996.
[29] Ho analizzato di recente questa dinamica a proposito del movimento delle donne iraniane nel mio Il corpo politico che muove l’Iran, “Italianieuropei” 2023/1.