13 Dicembre 2023
AltraEconomia

I traumi collettivi e le asimmetrie di potere che allontanano israeliani e palestinesi

di Anna Maria Selini


È un quadro fosco quello dipinto da Guido Veronese sulla situazione tra israeliani e palestinesi. «Siamo a un punto di non ritorno – spiega il docente di Psicologia clinica all’Università Milano Bicocca, esperto di traumi collettivi in aree di crisi – e le conseguenze non riguarderanno solo i due popoli, ma tutti noi». Veronese conosce bene la Striscia di Gaza: la frequenta dal 2011, come formatore e supervisore in scuole e centri che si occupano di traumi, in particolare dei bambini. Il 7 ottobre, quando Hamas ha attaccato Israele, provocando la morte di 1.200 persone, era appena rientrato in Italia. Di lì a poco su Gaza si è scatenata la peggiore delle rappresaglie, ad oggi sono 18.000 le vittime palestinesi.

Professore, come valuta quello che è successo a partire dal 7 ottobre?

Quello del 7 ottobre è stato un evento unico, catastrofico, e forse un punto di non ritorno anche per Israele stesso. Dalla sua fondazione, nonostante il periodo degli attacchi suicidi compiuti dai palestinesi tra gli anni ’80 e 2000, non si è mai verificato un evento di questa portata e ciò ha creato un punto di discontinuità in termini di sicurezza. Israele doveva e deve essere per i suoi cittadini il luogo sicuro per eccellenza, anche se forse non lo è mai stato veramente, ma una retorica della sicurezza è sempre stata costruita. Con il 7 ottobre si è sbriciolata e il senso di sicurezza del cittadino medio è entrato totalmente in crisi.

E invece per i palestinesi?

Anche la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre non ha precedenti per magnitudine di distruzione. Quindi anche per i palestinesi rappresenta un punto di discontinuità in termini di sofferenza collettiva, ma a differenza degli israeliani, per i palestinesi, in particolare di Gaza, non c’era un senso di sicurezza precedente. Anzi, semmai in questo vi è una certa continuità, un’idea di precarietà, di senso di minaccia e di attacco che è sempre continuato e che dopo il 7 ottobre ha avuto una accelerazione.

Quanto centrano il trauma della Shoah da un lato e della Nakba lesodo forzato di oltre 700mila palestinesi nel 1948 nelle reazioni dei due popoli?

Ci sono diversi livelli da tenere in considerazione. Il primo è quello del contemporaneo ed è qualcosa che ci riguarda un po’ tutti. Ha a che vedere con il privilegio delle società occidentali capitalistiche, quella presunzione di sicurezza e stabilità che diamo per scontata, ma che non lo è affatto, perché riguarda una piccolissima parte del mondo. Basti guardare la tragedia dei migranti e dei traumi collettivi che li portano a cercare una vita migliore in Europa. Israele da questo punto di vista è simile a noi: siamo molto spaventati di perdere questo privilegio e quando vediamo una persona sofferente, come il migrante, ci spaventiamo. Questa paura inferocisce, rende manipolabili e più facilmente razzisti.

A questo primo livello si aggiunge, nel caso di Israele, la questione della Shoah, in cui si innescano dei processi psicologici collettivi, ma anche delle patologie collettive. Perché avere a pochi chilometri da casa delle persone che soffrono in quella maniera e assolutamente non preoccuparsi per loro, ma addirittura in qualche modo partecipare a un processo di deumanizzazione nei confronti dei palestinesi, senza grossi rimorsi di coscienza trucidarli, come sta avvenendo, è un fenomeno patologico.

Mi ricorda un po’, più che gli ebrei che subivano lo sterminio, ancora una volta i tedeschi, che avevano i campi di sterminio a poche centinaia di metri o chilometri da casa e che non vedevano nulla. Il fatto che non vedessero ha un che di patologico e la società israeliana è vittima di questa patologia del non vedere.

Per quanto riguarda la Shoah, vedo anche un’altra cosa, il cosiddetto dirty game, gioco sporco: la tragedia della Shoah è stata ed è ancora molto sfruttata dalla retorica sionista, come la via per portare avanti un’agenda di dominio sui palestinesi, utilizzando la paura e forse anche tutto quello che rimane del trauma collettivo. Non so quanto questo possa fare presa sull’intera popolazione ebraica mondiale, che vive anche fuori da Israele il trauma transgenerazionale della Shoah. Sicuramente ha una forte presa sul senso di colpa occidentale, sulla nostra patologia collettiva, cioè quel senso di colpa che ci portiamo rispetto a quanto fatto, da europei e non palestinesi, nella Seconda Guerra mondiale nei confronti del popolo ebraico.

Quanto incide invece la Nakba sulle reazioni dei palestinesi?

Sicuramente ha fatto la differenza nella reazione attuale, così come in tutta la storia della resistenza palestinese. È qualcosa che fa parte della narrazione collettiva, che viene trasmessa di generazione in generazione, come un senso di deprivazione, spoliazione, perdita e con un aspetto del lutto che questo trauma porta con sé. È la perdita della terra, ma anche della dignità e di un numero impressionante di vite umane. Questo senso di insicurezza diffusa provoca una sofferenza collettiva, che in qualche modo porta anche a delle reazioni violente.

C’è poi un secondo livello, un altro tipo di trauma, che è il trauma del colonizzato: la reazione violenta che produce, che da un punto di vista di umanità potrebbe anche essere definita come ingiustificabile, è invece una reazione che assume senso, se la vediamo nei termini dell’impotenza e dell’umiliazione che vive il colonizzato. In tutti i processi di decolonizzazione c’è un aspetto atroce, violento e indicibile.

Si superano traumi del genere?

Se intendiamo che a un certo punto questi traumi storici e transgenerazionali spariscono, no. Ci saranno sempre, ma possono cominciare a coesistere, diventare una parte generativa nella storia dei due popoli. Il popolo ebraico dopo la Seconda guerra mondiale si è trovato di fronte a un bivio, che porta verso una storia di vita, quindi generativa, o una via di morte, fatta di una continua ripetizione degli aspetti negativi del trauma, della dinamica vittima-carnefice, con la possibilità che la prima si trasformi nel secondo.

Da un punto di vista psicologico, è possibile una pacificazione, un dialogo vero tra i due popoli?

Finché non c’è una riduzione delle asimmetrie di potere, credo non vi sia nessuna possibilità di contatto.

Ci sono i morti, ma anche i sopravvissuti. Come vivranno, in particolare i bambini?

Attualmente è molto difficile da dire, perché siamo ancora nella catastrofe, che è senza precedenti. Quello che fino adesso ho notato nel mio lavoro con i bambini palestinesi è una capacità di resilienza sorprendente, che ho visto però declinare negli ultimi anni, a favore dell’aumento del senso di oppressione, della chiusura e dell’assedio. Oggi ho veramente grossi dubbi che questa resilienza possa continuare ad esprimersi. Qualcosa di altamente catastrofico si è innescato e gli effetti li vedremo su tutta la popolazione mondiale, non so ancora in che termini.

Non si può fare nulla?

Si può agire solo nel momento in cui la crisi è stabilizzata e quindi l’unica cosa da fare ora è aspettare.


(AltraEconomia, 13 dicembre 2023)

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