di Alessandra Sarchi
Mi è capitato qualche settimana fa di rivedere La ragazza con la pistola, il film con cui Mario Monicelli diede la possibilità a Monica Vitti di esprimere il suo talento comico, da protagonista assoluta di una commedia sceneggiata da Rodolfo Sonego e Luigi Magni. Il film uscì nel 1968 e venne accolto in maniera tiepida dalla critica; se andate a vedere nel Morandini tuttora trovate un giudizio non entusiasta: macchiettistico, caricaturale, non del tutto riuscito. Eppure a me che lo scoprii da adolescente piacque moltissimo e anche ora, che sono una signora di mezza età, mi ha fatto lo stesso effetto.
Ricordo di aver visto il film di Monicelli e alcuni di Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) insieme a mia cugina, eravamo a metà degli anni ‘80, in quella che poi sarebbe stata chiamata l’epoca del riflusso e del disimpegno, e per noi due ragazzette, sebbene ignoranti della faticosa acquisizione di diritti da parte delle donne dal dopoguerra in poi, era chiaro di avere davanti una visione nuova del rapporto fra i sessi, che metteva in luce con la parodia i cliché maschilisti da cui eravamo ancora circondate.
Alcune scene e alcune frasi entrarono nel nostro lessico privato, un modo per dirci che avevamo capito ciò per cui bisognava lottare, ma anche un modo per spezzare la retorica romanticheggiante e sentimentale che, nella cultura media, ricamava un pathos insopportabile anche in quelle storie in cui era evidente che la cosa migliore per una ragazza era tagliare i ponti e cambiare strada. E infatti, in quegli stessi anni, Cyndi Lauper cantava “Girls just want to have fun”.
All’epoca non sapevamo che La ragazza con la pistola era anche una rielaborazione in chiave di commedia di un fatto di cronaca: il rapimento e la violenza subita nel 1965 da una giovane siciliana, Franca Viola, che poi aveva rifiutato fermamente il matrimonio riparatore; né che il film di Monicelli era pure in dialogo con la trilogia di Pietro Germi: Divorzio all’italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e signori (1966) e con l’indagine sulla femminilità condotta da Antonio Pietrangeli, in film come Adua e le compagne (1960) e Io la conoscevo bene (1965).
In qualche modo tuttavia, sebbene ci separasse un mondo dalla Sicilia rurale, ci identificavamo in Assunta Patané, una strepitosa Monica Vitti, rapita con la forza da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré) un coetaneo con cui scambiava sguardi eloquenti, ancorché furtivi. Nonostante il rapimento [avviso: molti spoiler a seguire], nonostante sappia che perdere la verginità significa perdere la rispettabilità sociale e cadere nell’abisso delle svergognate, Assunta consuma un’infuocata notte d’amore con Vincenzo che la mattina dopo scompare. Obbligata a vendicare l’infamia, con una pistola nella borsetta e seicento lire che la madre le infila nel petto, Assunta parte dalla Sicilia per l’Inghilterra dove Vincenzo è fuggito.
Vestita di nero, con una treccia che arriva fino al sedere, capace di esprimersi a malapena in dialetto siculo, Assunta arriva nella Londra effervescente della fine degli anni ’60 e da lì iniziano per lei una serie di avventure che la portano a scoprire non solo un mondo profondamente diverso da quello dal quale proveniva, ma anche la possibilità di rapporti fra uomo e donna non per forza finalizzati al sesso o al matrimonio. Ma il modello precedente continua ad agire: per questo ha un incubo ricorrente: tornare al paese non vendicata davanti a una schiera di donne e uomini in nero le gridano «buttana, buttana».
Fatta la tara all’andamento talora bozzettistico, tipico peraltro della commedia all’italiana, e alla tendenza caricaturale di certi personaggi, il film di Monicelli è piuttosto innovativo per lo spazio che riserva a una protagonista donna e per come ne rappresenta l’intraprendenza. Innanzitutto Assunta, in apparenza imbottita di cultura patriarcale quanto i maschi che la circondano, si comporta in modo da rompere lo schema della donna che resiste, o subisce passivamente, l’atto sessuale. Con una gag che si ripeterà alla fine, nel loro secondo e ultimo incontro amoroso, Assunta finge di respingere Vincenzo – «Fredda come il marmo sono. Non sento niente» – ma in realtà è parte attiva, perfino esagerata nell’impeto degli abbracci e dei toccamenti, tanto che Vincenzo subito sospetta che abbia conosciuto altri uomini prima di lui e si spaventa di tanta foga.
«Incatenata a te voglio essere» gli dice Assunta quando lui, alla fine, le chiede di sposarla e di smettere di lavorare e uscire liberamente con gli amici, ed è proprio questa affermazione estrema che sottolinea e rivela la cultura del dominio e del possesso che sottende ogni gesto, ogni parola di Vincenzo. Una cultura che Assunta saluta per sempre con un bye bye dal traghetto che la porta all’isola di Jersey, mentre Vincenzo sulla banchina del molo impreca: «Buttana eri e buttana sei rimasta».
Ricordo di aver riso moltissimo a sentire Monica Vitti dire: «Fredda come marmo sono» mentre si avvinghiava a Carlo Giuffré nelle due scene che sono comiche e parodiche al tempo stesso. Divenne un modo di dire fra me e mia cugina, e capisco perché ridevamo tanto, e rido tuttora: perché siamo davanti a un classico esempio di umorismo in cui ciò che viene negato a parole si realizza nei fatti, e soprattutto perché Monica-Assunta agisce il proprio desiderio, non è (solo) preda di un uomo, ma lo vuole attivamente, e se lo prende.
L’emancipazione di Assunta progredisce nel corso del film, e il regista lo sottolinea anche con gli abiti e i colori che la sua protagonista indossa; vestita di nero, castigata o a lutto all’inizio, con quella interminabile treccia che sembra la lunga catena di stereotipi sessisti cui è legata, diventa sempre più disinvolta nell’indossare camicie colorate, minigonne e foulard sgargianti. Eppure, e in questo sta l’originalità del punto di vista adottato da sceneggiatore e regista, Assunta è fin dall’inizio una donna che si ribella al ruolo di vittima e di sottomessa.
La scelta stessa di farle compiere un viaggio in un paese straniero, da sola, armata di una pistola, senza nessun appoggio, è di per sé rivoluzionaria: sono pochissime le narrazioni in cui una donna affronta da sola il vasto mondo e, anche se declinate sul registro picaresco, le avventure di Assunta la portano a diventare una persona più aperta, meno succube del costume sociale dentro cui è cresciuta e soprattutto pienamente legittimata da sé stessa nel disegnare la propria vita. Moll Flanders di Daniel Defoe è forse una sua lontana antenata, ma senza il filtro del puritanesimo.
D’altra parte, mentre Moll Flanders si macchia di crimini rilevanti, Assunta Patanè più banalmente sbaglia mira e ferisce alle gambe l’amante di Vincenzo, ma è proprio in merito alla violenza e all’idea di possesso nella relazione amorosa che Assunta compie una grande svolta: va a manifestare con i pacifisti contro la guerra in Vietnam e dichiara di aver chiuso con la violenza. Ammazzare Vincenzo non le interessa più. Questo passaggio è di grande importanza perché incrocia due realtà apparentemente separate: il codice di onore con cui Assunta era cresciuta e la violenza della guerra; a questa legge maschile di aggressione Assunta dice no.
Infine, Assunta Patanè è soprattutto una donna moderna nel senso che vuole autodeterminarsi; è mossa da bisogni e desideri simili ai nostri, primo fra tutti quello di tenere le redini della propria vita e di non cedere più all’asimmetria* nei rapporti con l’altro sesso.
Viceversa, la figura di Vincenzo è grottesca: quale uomo vorrebbe sentirsi vicino a questo fantoccio di virilità che crede di essere un tombeur de femmes mentre è solo un rozzo e manesco che vagheggia una moglie zitta e sottomessa mentre passa da un’avventura all’altra? La figura di Vincenzo è così poco attraente che è facile non empatizzare con lui, liquidandolo come un sessista con tutti i peggiori luoghi comuni del meridionale, eppure piace ad Assunta e probabilmente in qualche fase della vita sarebbe piaciuto a molte altre donne.
Perché allora questa commedia, che ha tutti gli ingredienti e la relativa complessità di punti di vista, non si annovera fra i film che hanno cambiato il modo di pensare i rapporti fra i sessi, l’emancipazione femminile, e il contesto di violenza in cui ciò è avvenuto, e purtroppo avviene ancora, nel nostro paese? Ho continuato a pormi questa domanda nei giorni terribili in cui si scopriva la morte di Giulia Cecchettin, ennesima e non ultima donna uccisa da un uomo, l’ex fidanzato.
Ripensandoci e facendo un paragone tra il film di Monicelli e i film della Wertmüller che vidi da giovane nello stesso periodo, una ragione può stare proprio nel fatto che l’elaborazione della violenza attribuita ad Assunta finisce da un lato per esonerare la controparte maschile dal fare altrettanto, dall’altro in un certo senso stilizza la violenza, la derubrica a fatto di cui si può ridere. Ben altra è la sua rappresentazione nei film di Wertmüller: botte e umiliazioni viste da una donna rimangono tali e violentissime, anche se nel corso del film si ride. Come si ride o sorride, ma si soffre anche per le vessazioni, nel recentissimo film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, dove di nuovo la posta in gioco per la protagonista è l’autodeterminazione.
Sono consapevole che non è un libro, non è un film o una pièce teatrale che possono cambiare dinamiche di potere nelle relazioni umane così radicate e cristallizzate in assunti verbali, simbolici, di costume da risultare indiscussi, come la supremazia maschile sulle donne. Eppure la modesta fortuna di La ragazza con la pistola fa parte del problema: nei modi leggeri della commedia e nel regime discorsivo doppio che l’ironia implica, va oltre il ritratto di costume, va oltre i vari cliché che rappresenta in scena, e pone una questione fondamentale: la violenza e il suo inestricabile legame con la cultura patriarcale. Solo che rimane una domanda di cui sono le donne a farsi carico, non gli uomini.
Assunta da vendicatrice armata si trasforma in pacifista convinta, e quando tira fuori la pistola davanti a Vincenzo è solo per dirgli che è scarica. Rinuncia alla vendetta e all’uccisione, elabora la propria vicenda e va oltre. Mi piacerebbe trovare nel cinema un corrispettivo al maschile di questa rinuncia, ci ho pensato e non l’ho trovato, può darsi che esista e che io non lo conosca, ma in generale mi sembra che a mancare nei discorsi sulla violenza sia una presa di posizione da parte maschile, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. È dai tempi di Aristofane e della sua commedia Lisistrata, che metteva in scena lo sciopero del sesso delle donne ateniesi per far cessare la guerra del Peloponneso, che la riflessione sulla violenza e sulla guerra viene affidata alle donne, è ora che gli uomini s’interroghino sulla loro parte, che lo facciano con le parole e con le azioni.
(Il Post, 18 dicembre 2023)
(*) Assunta Patané non mette in questione l’asimmetria tra i sessi, ma l’assunzione che “asimmetria” significhi “sottomissione”. (La redazione del sito)
Nota sull’autrice
Alessandra Sarchi
Nata a Reggio Emilia nel 1971 ha esordito nel 2008 con i racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore). Ha pubblicato quattro romanzi con Einaudi: Violazione (2012), L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020); del 2022 sono i racconti Via da qui (Minimum Fax). È autrice di La felicità delle immagini il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati (Bompiani 2019) e del podcast Vive! Storie di eroine che si ribellano al loro tragico destino, interpretato insieme a Federica Fracassi, divenuto poi un libro pubblicato nel 2023 da HarperCollin