di Massimo Lizzi
Il partire da sé, pratica inventata dal movimento delle donne alla fine degli anni ’60 del ’900, è stata una politica vincente per le donne. Oggi può esserlo anche per gli uomini? Chiara Zamboni scrisse che per gli uomini è una pratica difficile; il ruolo maschile tradizionale chiede loro di essere oggettivi; hanno paura di cadere nel narcisismo dell’io; lo interpretano come uno stare presso di sé piuttosto che un andare verso il mondo; temono di rimanere in una dimensione pre-politica. Abbiamo torto? Personalmente, non mi oppongo a questa pratica, ma è vero che le faccio resistenza.
Il partire da sé è un concetto che mi risulta sfuggente. Riguardo il cosa e il come. Su cosa sia il sé e su come si parta non esistono risposte chiare e univoche; né esiste un testo che traduca la pratica in teoria o almeno spieghi la procedura. Nel partire da sé ciascuno fa da sé. Questa indeterminatezza insieme con la critica «Manca (nel tuo testo, nel tuo discorso) il partire da sé» mi fa irritare. Tuttavia, ci provo e vado a tentoni. Parlo in prima persona, dichiaro i miei sentimenti, confesso qualcosa. Con impaccio e imbarazzo. Credo che questo modo sia gestibile nei rapporti duali e nei piccoli gruppi, meno nella sfera pubblica delle relazioni formali. Ragione per cui, gli uomini, come pure molte donne, si esprimono in modo neutro e oggettivo. Là dove non c’è conoscenza, fiducia e confidenza, per regolare conflitti e competizioni, si cerca di partire da ciò che è già condiviso o che si pensa dovrebbe esserlo: i principi.
Il mio sé, credo, non sente il bisogno di partire da sé. Quando parto da un principio, vi aderisco, non sono un dissociato. Diversamente, da quel principio non parto. Immagino che le donne abbiano inventato la pratica del partire da sé, per sottrarsi alla definizione di sé imposta dal «primo sesso»; per non essere più «seconde», ma libere e autonome nel proprio definirsi. Se da uomo non ho quel problema, perché dovrei adottare la pratica che lo ha risolto? Posso sentirmi alienato nei gradini inferiori delle gerarchie maschili. Allora voglio scalare la gerarchia oppure abbatterla. Il partire da sé come mi aiuta? Peraltro, alla base della gerarchia, se ho soddisfatto le necessità della sopravvivenza, sono preso dalla routine della quotidianità e del lavoro ripetitivo, il mio vissuto è piatto, le mie relazioni povere. Così, il mio sé. Partire? Meglio ancora, fuggire da sé.
Oltre la dimensione delle relazioni duali e dei piccoli gruppi, dove il partire da sé può essere utile e la sfera pubblica, lavorativa, dove invece sembra impraticabile, esiste la dimensione mass-mediatica, il contesto che Ida Dominijanni dice essere egemonico. È un contesto strano, con il quale sono sempre in contatto, tentato di pronunciarmi su cose molto più grandi di me, fuori dal mio raggio di controllo, già catastrofiche per tanti, in potenza anche per me nel prossimo futuro. Le grandi crisi globali, clima, energia, guerra. Qui, cosa vuol dire partire da sé? Se guardiamo alla pratica dei social e della televisione, come ha accennato la stessa Dominijanni, sembra essere il narcisismo dell’io, la paura attribuita agli uomini da Chiara Zamboni.
Un barlume mi è venuto in mente, ascoltando Letizia Paolozzi dire che l’otto marzo NUDM ha visto solo un orrore, mentre abbiamo davanti tanti orrori e, per fare politica, occorre vederli tutti. Affermazione ineccepibile che, tuttavia, sembra partire da un sacrosanto principio oggettivo. Infatti, se indago il mio sé, scopro che alcuni orrori li vedo più di altri. I crimini commessi dai russi in Ucraina non mi scuotono come i crimini commessi da Israele a Gaza. Perché? Questo mio sentire si espone all’accusa di doppiopesismo, un’accusa ricorrente e reciproca nelle contrapposizioni sulle guerre. Circa un anno fa, Alberto Leiss raccontò di queste contrapposizioni nel dibattito interno a Maschile Plurale, tra favorevoli e contrari all’invio di armi occidentali all’Ucraina. Opinioni politiche divisive. Poi, raccontò di una seconda fase del dibattito, dove emersero gli stati d’animo di angoscia e impotenza di fronte alla guerra. Sentimenti unificanti.
Secondo me, tra i due piani, non c’è necessariamente contraddizione. L’angoscia di fronte alla guerra può portarmi a desiderare la pace con il «nemico» o la protezione dell’amico più potente. Così immagino che tra il nostro sé e i principi oggettivi a cui aderiamo ci sia più associazione di quel che pensiamo. Il mio pacifismo di principio, che mi porta a trattenere e criticare la mia parte, può essere associato al senso di colpa. Il sentimento suscitato dai nostri orrori. Quelli commessi con i nostri soldi, le nostre armi, la nostra legittimazione politica. Nostra, di noi italiani, europei, occidentali. Il 7 ottobre in Israele è stato terribile, ma non sono stato io. Perciò, capisco l’otto marzo di NUDM.
Se le donne, le femministe, le mie amiche, sollecitano gli uomini a partire da sé, vorrei corrispondere, anche se non ne sono sempre e del tutto convinto. Il partire da sé nella misura in cui il sé è accessibile o sembra tale, quando è dato il tempo e il modo di riflettere, aiuta l’introspezione e la consapevolezza. Mi fu detto che il sé è primariamente il proprio desiderio. Eppure, non mi sento mosso dai desideri. Se lo sono, sono trattenuto, perché tendo a considerare i desideri causa di frustrazione, qualcosa da cui è meglio tenere una distanza. Penso che tra i miei principali motori interiori, forse il primo, ci sia proprio il senso di colpa. Così, per me, il partire da sé, rischia di essere il partire dal mio senso di colpa.
(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2024)