di Giovanna Cifoletti*
È arrivato il tempo del punto di vista femminile: «sia noi che loro», parte dei tre punti essenziali per costruire un dialogo “binazionale” verso un’azione di pace
Il senato accademico dell’Università di Torino ha accolto la richiesta di studenti e professori di non partecipare al bando Maeci 2024 (di collaborazione scientifica per progetti di elettronica dual use con università israeliane). La mozione di studenti e professori richiedeva questa rinuncia al bando per protestare contro l’“educidio” in corso nella striscia di Gaza. La decisione è stata presa democraticamente, quindi gridare immediatamente allo scandalo non sembra comunque appropriato: se ci fosse solo una decisione accettabile la riunione del senato accademico sarebbe puramente formale. Inoltre, contrariamente a quanto viene detto, questo non interrompe tutte le collaborazioni con Israele. La decisione stessa non si può ridurre a un boicottaggio accademico, poiché il bando è stato concepito dal governo, non dalle università: comunque è un’occasione di riflessione su come gli scambi scientifici possano e debbano svolgere la loro missione di reciproco arricchimento culturale e scientifico, ma anche di pace. Infatti il punto del mantenere gli scambi universitari non è di permettere ai professori e agli studenti di andare avanti come se niente fosse in mezzo alle guerre: questo gli studenti non lo accetteranno mai, e per fortuna. Si tratta piuttosto di conservare uno spazio di dialogo, o almeno di non belligeranza e di controversia civile anche in mezzo a tali vicissitudini. Ma preservare il dialogo e la pace è una vera e propria azione, che si può articolare almeno in tre punti.
Il primo puntoè considerare gli scambi di ricerca, individuali e tra università, privilegiando il criterio del dialogo. Nel caso di Israele e della Palestina, una terra con due popoli, gli scambi si devono avere con ambedue i popoli: come scrivono i professori torinesi che volevano partecipare al bando Maeci, «le università sono ovunque luoghi e cenacoli di pensiero critico». Concretamente ciò significa che se si hanno scambi con l’università di Tel Aviv o Haifa se ne cerchino anche con Bir Zeit o Al Quds, cioè con una delle quindici università in Cisgiordania o una delle undici università di Gaza. Solo questo permette di capire come vivano gli uni e gli altri. Nella mia esperienza, avere scambi con università israeliane è facile, mentre le condizioni dei ricercatori palestinesi sono radicalmente cambiate dopo il 2000. Alcuni colleghi palestinesi di Al Quds sono dovuti emigrare da Ramallah al Canada, o non hanno potuto muoversi perché apolidi, mentre altri sono a Gaza attualmente senza contatti e possiamo solo sperare che stiano bene, poiché tutte le università sono state bombardate. Se teniamo veramente alla cooperazione e al dialogo con gli abitanti di quella terra, malgrado queste difficoltà, dobbiamo coltivare il dialogo binazionale, secondo l’espressione degli attivisti sul posto. I gruppi di attivisti della pace sono tra israeliani e palestinesi dei territori occupati e non solo con “arabi israeliani”, i soli che possono iscriversi alle università israeliane. Sono costituiti da persone in lutto per figli e parenti o da disertori. Hanno imparato che non si tratta di stabilire colpe, ma di incontrare delle persone e di lavorare su ciò che si ha in comune. Le gare a chi ha sofferto di più o il “o noi o loro” non possono portare che ad altri lutti e a vite segnate dal dolore e dall’incertezza. Le maggioranze dei due popoli sono contrarie alle politiche dei due governi. È arrivato il tempo del punto di vista femminile: “sia noi che loro”. Intendo dire il punto di vista che in genere hanno le donne nella società, o quello che hanno scelto le donne del Rwanda quando la guerra tra tutsi e hutu aveva decimato i maschi. Anche con noi italiani, solo il dialogo binazionale di Israele e Palestina è dialogo a pieno titolo, che rafforza la parte migliore del popolo israeliano e di quello palestinese e contribuisce alla pace. E noi, tanto più come popolo mediterraneo, abbiamo un ruolo da giocare a questo livello. Per la formazione universitaria completa è sempre stato necessario andare a conoscere modi di studiare e contenuti diversi, la peregrinatio studiorum. In questo senso gli scambi con le università israeliane sono da raccomandare, se sono legali.
Il secondo punto dell’azione di pace sarà quindi verificare la legalità di questi accordi. Gli accordi con università israeliane costruite negli insediamenti in Cisgiordania sono illegali quanto gli insediamenti stessi. Questo è il caso di alcuni nuovi campuses dell’Università di Gerusalemme a Gerusalemme Est e certamente dell’università Ariel. Università statali italiane non devono avere contratti di scambi scientifici con istituzioni illegali, e se questo accade ancora dovrebbe essere evitato.
Analogamente, e questo sarà il terzo punto dell’azione di pace, si può ragionare per quanto riguarda gli scambi scientifici e tecnologici a scopo bellico, o ricerche dual use. In questi giorni il CNR ha elaborato delle linee guida che vanno in questo senso, pur mantenendo il principio della contrarietà al boicottaggio. Infatti, non collaborare sul piano bellico non significa essere nemici o non amici di Israele, ma semplicemente non partecipare alle sue guerre, né alle guerre di altri, proprio in coerenza con l’intento di preservare le università e la ricerca come spazi di dialogo.
Boicottare le università israeliane è ancora un altro livello di politica, non implicato dai punti dell’azione di pace descritta sopra. Il dialogo deve permetterci di esprimere pareri diversi, insegnarci a tollerare; a sopportare anche differenze radicali. Voglio ancora sperare che ciò sia possibile, idealmente gli studenti dovrebbero poter assistere a un dibattito tra esponenti del governo israeliano ed esponenti di Hamas. Meno bombe e più parole: la parola è prioritaria. Certo, questo presuppone la volontà di ascoltare le due ragioni e addirittura di trovare una soluzione che ne tenga conto. Dall’assassinio di Rabin la politica non ha espresso questa volontà. Speriamo che questo nuovo incendio sia l’occasione del cambiamento. In caso contrario si potrà ricorrere al mezzo non violento del boicottaggio, ma solo come extrema ratio, come mezzo per creare le condizioni del dialogo, e forse l’università non è il luogo più indicato, proprio perché è fatta per discutere.
(*) dei Disarmisti esigenti
(Noi donne, 2 aprile 2024)