di Hanno Hauenstein
La nota filosofa Nancy Fraser avrebbe dovuto tenere la cattedra Albertus Magnus all’Università di Colonia il prossimo maggio. Alla fine della scorsa settimana, però, il suo invito è stato ritirato dal rettore dell’università, Joybrato Mukherjee, per aver firmato una lettera di solidarietà pro-Palestina lo scorso autunno. In questa intervista, Fraser parla per la prima volta di quel che è successo.
L’Università di Colonia l’ha disconosciuta dalla cattedra Albertus Magnus. Cosa prevedeva questo incarico?
La cattedra prevedeva un soggiorno di alcuni giorni e conferenze pubbliche nell’ambito di un programma che doveva essere dedicato allo scambio aperto. Ho deciso di tenere delle conferenze a partire dal mio attuale progetto di libro sui tre volti del lavoro nella società capitalista, un argomento che non aveva nulla a che fare direttamente con Israele o la Palestina. Avevo lavorato sodo per scrivere queste conferenze. Tra l’altro, avevo anche comprato un costoso biglietto aereo.
Può spiegare come è avvenuta la cancellazione?
Qualche giorno fa ho ricevuto un’e-mail da un professore di Colonia, Andreas Speer, che organizza questi eventi. Mi ha detto che aveva appena sentito il rettore dell’università, che era preoccupato per il fatto che avevo firmato la dichiarazione Philosophy for Palestine a novembre e voleva che chiarissi la mia posizione. Ho pensato: che faccia tosta! Voglio dire, che cosa gli importa di sapere quali sono le mie opinioni sul Medio Oriente? Sono un soggetto libero, posso firmare quello che voglio.
D’altra parte, non volevo essere eccessivamente conflittuale. Così ho risposto dicendo: «Certo, ci sono molti punti di vista diversi sulla Palestina e su Israele, e c’è molto dolore da tutte le parti, compreso quello che ho provato io stessa come ebrea. Ma c’è una cosa su cui non ci può essere disaccordo». Ho citato una frase di una dichiarazione che il rettore dell’università aveva pubblicato sul sito dell’ateneo, sull’importanza di una discussione aperta e rispettosa. Quindi, ho detto al signor Speer: «La prego di assicurare al rettore che può assolutamente contare su di me quando si tratta di una discussione aperta e rispettosa». Pensavo che questo avrebbe messo fine alla questione. Ma in realtà, appena uno o due giorni dopo, ho ricevuto una mail diretta dal rettore che diceva di non avere altra scelta se non quella di ritirare l’invito. È scritto esplicitamente, nero su bianco, che poiché ho firmato questa lettera e non l’ho disconosciuta nelle nostre successive comunicazioni, sono stata cancellata.
Qual è stato il principale punto di scontro? L’uso dei termini apartheid e genocidio? O il boicottaggio delle istituzioni israeliane, a cui la lettera invita a partecipare?
Non lo so davvero, perché non ho ricevuto ulteriori spiegazioni. Il rettore mi ha proposto di fare una video chiamata in cui mi avrebbe spiegato ulteriormente il suo punto di vista. Non ho risposto. È una questione pubblica. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di parlare apertamente. Quindi, spetterà a lui chiarirlo. Ora c’è anche una dichiarazione sul sito dell’università. A me sembra che tutto questo sia una cortina di fumo. È una chiara violazione della politica dichiarata dall’università e degli stessi valori che invocano con il nome Albertus Magnus. Tali valori sono proprio quelli della libertà accademica, di opinione, di parola e di discussione. Qualunque complicata razionalizzazione venga fornita per spiegare perché questo procedimento non violi tali valori mi sembra vuota. È un segnale molto forte a tutte le persone dell’università e agli studiosi di tutto il mondo: se osate esprimere certe opinioni su certi argomenti politici, non sarete i benvenuti qui in Germania. Ha un effetto raggelante sulla libertà di espressione politica delle persone.
Quando dice che questa è una violazione delle politiche dell’università, prevede di intraprendere un’azione legale?
Ci ho pensato. Non è la mia priorità. Ma non lo escludo nemmeno. Prima di tutto voglio convincere le persone che questo è un caso davvero oltraggioso di quella che, secondo molti, è una tendenza molto più ampia nella Germania di oggi. Le persone che occupano posizioni di potere nelle università e nelle istituzioni artistiche tedesche e i membri del governo federale tedesco che potrebbero incoraggiarli in questo senso dovrebbero pensarci due volte. Stanno violando chiaramente le norme accademiche e, francamente, anche quelle costituzionali ampiamente diffuse in materia di libertà politica e libertà di parola. Ciò danneggerà notevolmente l’accademia tedesca.
Considerando solo la storia più recente dell’indignazione pubblica e delle cancellazioni in Germania, sembra che lei sia in buona compagnia. Ci sono stati i casi di Maša Gessen, Ghassan Hage, Judith Butler e molti altri. Molti di loro, come lei, sono ebrei. È preoccupata per questo?
Non per me stessa. Sono installata a New York e ho un enorme sostegno, tra cui una lettera estremamente forte del presidente della mia università, la New School, Donna Shalala, che si apre con la grande frase: «Albertus Magnus sarebbe inorridito!». Fa notare che è particolarmente preoccupante che un’istituzione tedesca cancelli un membro della facoltà della New School, che non solo ha salvato gli studiosi tedeschi in fuga dal fascismo, ma ha anche creato uno spazio per continuare il corpo della teoria critica che era stato spazzato via in Germania. La New School ha contribuito a quel corpo di pensiero così come ho fatto io personalmente. Quindi, questo è un insulto alla New School, oltre che a me. Ma soprattutto è una violazione delle norme sulla libertà accademica.
Crede che questa sia una tendenza?
Sì, e sono molto preoccupata. La vedo come una febbre che sta attanagliando la Germania e, in misura minore, l’Austria. È una cosa molto dannosa. Penso anche che sia importante che i tedeschi capiscano qualcosa della complessità e dell’ampiezza dell’ebraismo, della sua storia, della sua prospettiva. I tedeschi stanno in un certo senso sottoscrivendo l’idea di un giuramento incondizionato di fedeltà a Israele, come se la responsabilità storica tedesca comportasse il sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Considerando ciò che Israele sta attualmente facendo, questo è un tradimento di quelli che definirei gli aspetti più importanti e pesanti dell’ebraismo come storia, prospettiva e corpo di pensiero. Mi riferisco all’ebraismo di Maimonide e di Baruch Spinoza, di Sigmund Freud, Heinrich Heine ed Ernst Bloch.
Può specificare cosa intende?
Quest’altra tradizione dell’ebraismo sta riducendo l’ebraismo non solo al nazionalismo, ma a un ultranazionalismo del tipo di quello che sta calpestando e fondamentalmente distruggendo la Striscia di Gaza. A proposito, ho appena firmato un’altra lettera! Non sono pentita. Una lettera contro lo “scolasticidio” israeliano, cioè la distruzione di scuole e università a Gaza. Più di cento professori sono stati uccisi lì. Nove rettori di università sono stati uccisi. I nomi delle persone che vi ho menzionato prima sono solo una lista, ma ce ne sono molte altre. Basti pensare ad Albert Einstein, a cui fu offerta la presidenza dello Stato di Israele e che rifiutò. Si tratta di persone che per la loro stessa ebraicità hanno difeso diritti universali, non una ristretta identità tribale.
Alcuni dei suoi critici hanno sostenuto che in realtà lei non è stata cancellata, ma semplicemente le è stato rifiutato una sorta di tributo.
Ci sono tedeschi che sono tentati di sorvolare e di dire che si trattava solo di un premio onorario. Molti tedeschi, anche giornalisti, sono stati intimiditi e hanno accettato una visione molto distorta del significato della libertà accademica. L’argomentazione secondo cui si potrebbe semplicemente togliere qualcosa perché è solo un premio e non è veramente un ruolo accademico è una sciocchezza. In realtà quella di visiting professor è una nomina accademica. Come tutti gli altri titolari di questa cattedra, sono stata scelta per il mio lavoro accademico. L’idea che ciò che faccio giustifichi il ritiro di un invito dice già che l’autonomia accademica viene violata. Su questo non c’è dubbio. Voglio dire a queste persone che è vero che avete la responsabilità di pensare profondamente agli ebrei. Ma ci state pensando nel modo sbagliato. C’è un altro modo di pensare.
Critici come Maša Gessen hanno sostenuto che negli ultimi anni l’interpretazione specifica della «Staatsräson” (ragion di stato) tedesca nei confronti di Israele ha aiutato gli estremisti di destra come l’Alternative für Deutschland (AfD). È d’accordo?
Non posso fare commenti specifici sull’AfD. Ma posso dirle che negli Stati uniti la destra cristiana evangelica ha la sua versione del “maccartismo filosemita”, per usare l’espressione di Susan Neiman. E hanno una logica teologica che è di per sé profondamente antisemita. Ma la cosa più preoccupante della Germania per me non è l’AfD.
Che cos’è?
Il centrismo di destra, dove risiede il vero peso dell’opinione pubblica. È così facile che venga influenzata da argomenti che per me sono palesemente falsi. Come l’argomentazione secondo cui, cancellando il mio invito, nessuno starebbe violando la libertà accademica, ma semplicemente scegliendo di non onorare una persona che ha le opinioni che pensano io abbia.
Lei ha detto che non c’è un legame profondo tra Filosofia per la Palestina e il ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere a Colonia. Ma direbbe che non c’è un legame tra la posizione assunta nella lettera e i suoi scritti accademici?
Indosso più di un cappello. Svolgo un lavoro teorico. Occasionalmente firmo lettere come cittadina. Non credo che questi aspetti debbano essere direttamente collegati. Tuttavia, a volte scrivo in modo più agitato o propagandistico. L’esempio migliore è Femminismo per il 99% di cui sono coautrice con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Abbiamo preso le idee che ognuna di noi aveva sviluppato nel proprio lavoro e le abbiamo fuse. Si tratta di un manifesto su come tracciare un percorso diverso per l’attivismo femminista, per intenderlo come interesse del 99%, delle donne, degli uomini e dei bambini, in contrapposizione a un certo tipo di femminismo neoliberale aziendale. Ho cercato di divulgare le mie idee accademiche, ma non ho mai scritto sul Medio Oriente. Non ho grandi competenze, ma sono una cittadina che pensa e legge. E come ebrea, sento la speciale responsabilità di dire «non in nostro nome».
Forse perché ciò che viene fatto a Gaza è, in una certa misura, fatto in nome del popolo ebraico?
Esattamente. Non c’è dubbio che ci sia una strumentalizzazione, o addirittura si faccia un’arma, dell’accusa di antisemitismo applicata in modo del tutto sbagliato alle persone che ritengono che condannando l’attuale corso del governo israeliano, si sostiene una correzione di rotta per migliorare la situazione dei palestinesi così come del popolo ebraico ovunque.
Sembra una cosa onorevole da dire. In Germania, tuttavia, il Bundestag ha approvato una risoluzione che dichiara il boicottaggio delle istituzioni israeliane come un caso di antisemitismo.
Molti in Germania associano tali boicottaggi a immagini di boicottaggi storici contro gli ebrei tedeschi negli anni Trenta.
È un’associazione interessante. Però all’epoca non esisteva uno Stato ebraico che si impegnava in una carneficina militare illegittima. Un parallelo migliore sarebbe il Sudafrica, dove c’è stato un forte boicottaggio accademico, un boicottaggio sportivo e un boicottaggio culturale, che ha avuto un certo impatto insieme al boicottaggio economico per porre fine all’apartheid. Tra l’altro, i tedeschi non si limitarono a boicottare gli ebrei. Li espulsero, li radunarono, li mandarono nei campi di concentramento e li uccisero. Niente di tutto ciò sta accadendo qui.
Ha intenzione di ripetere il ciclo di conferenze di Colonia altrove?
Lo farò altrove! Si tratta di una nuova versione ampliata e rivista di alcune conferenze che ho tenuto a Berlino due anni fa. Ora ho molto materiale nuovo, che non vedevo l’ora di presentare. La mia università, la New School, sta organizzando un evento. Mi è stato anche suggerito di tenere una conferenza in altre parti della Germania con il titolo: Questo è ciò che non volevano farvi sentire a Colonia.
Alcuni professori tedeschi hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Crede che la gente in Germania possa cambiare idea su questi temi?
Non sono abbastanza vicina per avere un’opinione informata in merito. Ma ho l’impressione che la febbre si diffonderà. Non sono in grado di dire se il mio caso sarà l’evento scatenante, o il prossimo, o quello successivo. C’è un crescente disagio al riguardo. Almeno a New York.
Si vede come una vittima di quello che prima ha descritto come antisemitismo filosemita?
Suppongo di sì. Sono stata cancellata in nome della speciale responsabilità tedesca per l’Olocausto. Presumo che tale responsabilità ne debba comportare una nei confronti degli ebrei. Ma, naturalmente, si restringe alle politiche statali di qualunque governo si trovi a governare in Israele. Per noi negli Stati uniti, maccartismo è una parola potente. È un modo per mettere a tacere le persone con il pretesto che si è presumibilmente a favore degli ebrei.
Negli ultimi sei mesi gli Stati uniti e la Germania sono stati i due principali fornitori di sostegno e armi a Israele. Che peso ha questo nella sua visione della Germania?
Il primo colpevole sono gli Stati uniti. Non sto salvando la Germania, ma in realtà, se vi interessa sapere chi finanzia le politiche di Israele, sono gli Stati uniti. Tuttavia, per la prima volta nella mia vita, e credo in assoluto, c’è una discussione pubblica equilibrata sulla questione della Palestina. Le voci palestinesi sono presenti nella sfera pubblica. Le organizzazioni, comprese quelle ebraiche di sinistra, che criticano la politica israeliana sono nella sfera pubblica. Joe Biden è sotto pressione. Ha parlato in modo più duro delle condizioni degli aiuti a Israele e ha chiesto un cessate il fuoco. Resta da vedere se questo si tradurrà in veri e propri tagli o condizionamenti degli aiuti, se i democratici al Congresso cercheranno di forzare la questione. Ma almeno il rubinetto aperto del nostro governo sugli aiuti militari è diventato politicizzato e contestato.
Mi auguro che qualcosa di simile si sviluppi anche in Germania. Che almeno diventi una questione pubblica su cui si possa discutere, senza essere accusati di antisemitismo o essere cancellati.
(Jacobin Italia, 11 aprile 2024)