di Viviana Daloiso
La coda per la strada. L’emozione incontenibile. Il sogno realizzato di salire la scala, entrare nel seggio, pulire la bocca dal rossetto e assicurarsi che, sì, c’eravamo. Abbiamo votato anche noi per il domani dell’Italia. Le immagini finali del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, che hanno commosso le sale dei cinema quest’anno e innescato il dibattito ancora inesaurito sull’importanza del voto delle donne e sul loro ruolo irrinunciabile nella costruzione della Repubblica, sembrano sbiadire davanti agli esiti impietosi dell’ultima tornata elettorale. E va bene, ripetono gli analisti, al non voto femminile eravamo già abituati da anni, la tendenza è assodata a tutte le età e lungo tutta la cosiddetta piramide sociale – che nel nostro Paese aderisce impietosamente alla cartina geografica dello Stivale –, ma il dato messo nero su bianco dai conteggi definitivi dei sondaggi circa quanto accaduto il weekend scorso è di quelli da dimenticare. O meglio, da attraversare e metabolizzare, per capire dove si è sbagliato e come cambiar rotta.
Scomparse
Tra chi non è andato a votare, e cioè oltre la metà degli italiani di cui tanto si è parlato negli ultimi giorni, la maggior parte sono state proprio donne. Del tutto disinteressate alla campagna elettorale, tiepide nei confronti delle istituzioni europee e persino in quelli delle due leader donne (la presidente del consiglio Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia ed Elly Schlein per il Partito Democratico) che per la prima volta si scontravano nell’agone della politica nazionale. Le cifre sono impietose, per Avvenire le ha elaborate in esclusiva Swg: se fra gli uomini la barra dell’astensionismo si è spinta fino a un già drammatico 46%, per le donne è salita oltre il 59%. Un secco 13% di differenza, oltre che un aumento dell’11% rispetto al numero di elettrici che avevano già scelto di non recarsi alle urne nella tornata del 2019 (all’epoca s’erano attestate al 48%). Come dire: la situazione è in peggioramento, senza che le conquiste in termini di rappresentanza a livello politico abbiano sortito effetti concreti, né le forme organizzate di protesta contro discriminazioni di genere e diseguaglianze.
Perché? Cosa ci allontana così tanto dalla politica nonostante la faticosa conquista del diritto a far sentire la nostra voce e la sacrosanta battaglia perché sia ascoltata al pari di quella dei maschi? «Le risposte affondano nelle specificità territoriali e culturali, ovviamente, ma hanno alcune matrici comuni – spiega Cristina Pasqualini, sociologa dell’Università Cattolica che collabora con l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo – prima fra tutte l’evidente incapacità da parte della politica di rappresentarle, le donne. Tanto ci sentiamo sole, tanto mancano decisioni davvero incisive per le nostre vite, attenzione ai nostri problemi concreti, tanto crescono disaffezione e sfiducia. Non è un caso se le dinamiche di voto riscontrate nel segmento femminile sono le stesse che registriamo nelle indagini sui giovani: donne e ragazzi sono in questo momento le due categorie più vulnerabili del Paese perché rimosse quasi del tutto dall’agenda istituzionale e il risultato è la loro delusione e disillusione. Non contano sulla politica, non vi badano, perché la politica li esclude».
Le priorità
Vengono in mente le manifestazioni di donne che hanno infiammato il Paese in autunno, subito dopo il terribile femminicidio di Giulia Cecchettin, la richiesta agitata con rabbia nelle piazze (assieme alle chiavi) di uno sguardo sul dramma delle violenze e dei femminicidi: «Proteste che non sono state incanalate in un percorso realmente costruttivo di cambiamento – rileva la prorettrice dell’Università Bocconi Paola Profeta –, come se l’azione politica non riuscisse a superare la contingenza dei singoli problemi, di volta in volta ridotti a discorso ideologico, in una dinamica di polarizzazione delle posizioni che non arriva mai a incidere davvero nella quotidianità delle donne: così oggi ci troviamo con un Family Act di fatto fermo, con la cancellazione quasi totale di percorsi di empowerment e occupazione femminile, con un dibattito da parte del governo sbilanciato sui figli piuttosto che sul lavoro e da parte delle opposizioni quasi completamente incentrato sui diritti, penso in questo caso a quelli Lgbt o di adozione da parte delle coppie gay, che riguardano una minoranza della popolazione: la maggioranza delle donne non vi si riconoscono», ergo la stessa maggioranza non si riconosce in nessuno.
Un nervo scoperto, quello della distanza tra le priorità dei partiti – di governo e non – e la realtà ben esemplificato dal dibattito in corso sull’aborto: con i presunti “attentati” alla libertà femminile legati alla decisione di prevedere figure pro-vita nei consultori che avrebbero dovuto scatenare una rivolta di popolo (femminile soprattutto, s’intende) e che invece non hanno smosso l’elettorato. Nemmeno a livello di preferenze: «Le donne che hanno seguito la campagna elettorale d’altronde sono state anche meno di quelle che hanno votato, e quelle che hanno votato lo hanno fatto seguendo l’andamento nazionale con pochi discostamenti – spiega Rado Fonda, responsabile ricerche di Swg –: nel 28% dei casi, cioè, hanno premiato Fdi, nel 9% Forza Italia e nel 10%, qui un punto percentuale in più rispetto agli uomini, la Lega». Vale a dire che nel 47% dei casi hanno confermato la linea della maggioranza di governo, non importa la posizione così tanto contestata sull’aborto. «Nel 25% dei casi, invece hanno votato Pd e nell’11% Movimento 5 Stelle, con un picco al Sud relativamente al partito di Conte del 16,4% contro il 13% degli uomini. Segno che il fattore economico, e la variabile reddito di cittadinanza, in questa parte del Paese ha evidentemente non solo più peso, ma più peso per il genere femminile, evidentemente lontano dal mondo del lavoro».
Chi lavora, chi no
Che proprio l’occupazione, per altro, sia la variabile davvero incisiva sul desiderio di partecipazione alla vita democratica del Paese lo dimostrano i dati che guardano oltre a quelli di genere: l’astensione s’è fermata a poco più del 40% dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi, tanto per fare un esempio, e ha toccato quasi il 60% nel caso dei ceti bassi: «La disoccupazione femminile è il vero problema, lo ripetiamo da anni – sottolinea Lella Golfo, reduce dall’incontro col presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il Premio Bellisario –. Quando una donna si realizza, conquista la sua autonomia e afferma il suo talento, quella donna combatte anche, scende in campo, non perde l’occasione di far sentire la propria voce. Sei donne su dieci che non sono andate a votare sono donne per cui il domani non è mai arrivato, per cui non è cambiato ancora niente e che sono convinte che niente cambierà. Occorre convincerle del contrario, ciò che da sempre è l’impegno della nostra fondazione». E occorre un impegno serio per il superamento delle diseguaglianze, «perché le donne abbiano le stesse possibilità e gli stessi stipendi degli uomini – rileva ancora la sociologa Pasqualini –, perché possano godere di autonomia e indipendenza, perché banalmente possano gestire un proprio conto corrente. Serve parlare delle donne, a tutte le donne. E non basta, è evidente, che siano leader donne a farlo: è importante, ma non è sufficiente».
Il cambiamento
Le cose cambieranno? Forse. «Ora occorre prendere atto di una doppia sconfitta: – continua Profeta – una di noi donne, che non abbiamo saputo onorare la battaglia fatta sul voto da chi ci ha preceduto; una della politica, per averci anestetizzato». Ma è proprio la politica ora che dovrebbe cogliere l’opportunità di recuperare una fetta di elettorato decisiva muovendo le leve giuste per risvegliarne passione e fiducia. «Deluse non significa perse. Le donne, come i giovani, stanno solo aspettando che cambi l’aria – conclude Pasqualini –, per rimettersi in moto e diventare protagoniste di un percorso di partecipazione senza cui nessuna democrazia può sopravvivere a lungo». Nemmeno la nostra.
(Avvenire, 16 giugno 2024)