di Costanza Chirdo
Lo sguardo dell’altro e la narrazione come significante dell’unicità di un’esistenza. Il femminile e la maternità quale esperienza da pensare senza stereotipie. Il linguaggio, le parole per nominare il mondo anche quando si tratta delle sue forme di distruzione, la guerra e la violenza sugli inermi. Da sempre Adriana Cavarero, filosofa, figura di spicco del pensiero della differenza sessuale, docente universitaria e autorevole esponente di studi arendtiani, si confronta con i grandi temi della contemporaneità, a partire dal proprio essere donna e in costante dialogo con pensatrici e scrittrici quali Simone de Beauvoir, Simone Weil, Virginia Woolf, Karen Blixen, Elena Ferrante e Annie Ernaux. Nel nuovo “Donna si nasce”, scritto con Olivia Guaraldo e in uscita per Mondadori il prossimo 10 settembre, Cavarero affronta la questione del linguaggio.
Adriana Cavarero, quale ritiene essere, al momento, il tema più urgente?
«Ce ne sono diversi. Dal punto di vista della politica internazionale è sicuramente inevitabile la riflessione sulla violenza, sulle forme della distruzione contemporanea. Dopo l’11 settembre 2001 scrissi “Orrorismo”, dove già affrontavo la tematica della violenza sugli inermi che è molto attuale. La guerra ha cambiato forma: se nel periodo napoleonico era scontro tra eserciti a partire dalla prima guerra mondiale, e poi con un’accelerazione nella seconda, è diventata eccidio di civili. Oggi il guerriero espone poco il suo corpo mentre i tecnici della guerra distruggono attraverso sofisticatissime tecnologie avendo però come oggetto i corpi della popolazione civile».
Rispetto alla guerra emerge il tema della narrazione della stessa. Il flusso ininterrotto d’informazioni che provengono dai social e dai media sollecitano la riflessione?
«La narrazione richiede vicinanza, prossimità fisica. È colloquio tra corpi in presenza, all’interno di relazioni e nella dimensione della scoperta di sé e dell’altro. Quella sui social e sui media è una narrazione costruita per essere partigiana, per sostenere tesi e quindi spesso piena di falsità e di forzature ideologiche. Questo quando si parla di argomenti generali: quando si tratta, invece, di argomenti personali, i social spesso non sono altro che vetrine narcisistiche. Non c’è interesse per gli altri né scambio, è quella che io chiamo vetrinizzazione».
A partire da “Tu che mi guardi, tu che mi racconti”, il suo lavoro sulla narrazione come strumento di restituzione dell’unicità di un’esistenza si colloca in opposizione alla filosofia che persegue, invece, l’astrazione e l’universale, rimuovendo di fatto le peculiarità individuali, prima tra tutte la differenza sessuale.
«Questa è un’idea che ho preso da Hannah Arendt, che non parla né di soggetti universali, per esempio quello cartesiano, né dell’individualismo moderno, che non sarebbe altro che una moltiplicazione di soggetti tutti uguali. Arendt parla dell’unicità come diversità assoluta: ciascuno di noi è unico e occorre avere cura di questa unicità, che è anche una fragilità che caratterizza ogni essere umano».
La narrazione dà significato a questa unicità?
«Credo che ognuno di noi voglia un senso. Non è detto che poi esso ci sia, tuttavia tutti noi desideriamo che la nostra vita sia narrabile e narrata dagli altri, traducibile in una storia che abbia un significato. Non è un caso che Karen Blixen, che è stata una narratrice eccezionale, abbia scritto che tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia. E con lei Arendt, quando afferma che la storia rivela il significato di ciò che, altrimenti, rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi».
Nell’ultimo “Donne che allattano cuccioli di lupo – Icone dell’ipermaterno” (Castelvecchi) riflette sulla maternità con Elena Ferrante, Annie Ernaux e Simone de Beauvoir. Le donne restituiscono un racconto autentico del femminile?
«Diffido del termine autentico, come della parola verità, è un vocabolo molto pericoloso. Preferisco dire che queste donne esprimono certi lati dell’essere donna che sono interessanti perché escono dagli stereotipi. Siamo tutti abituati a una narrazione stereotipica del femminile, pensiamo alla maternità. Loro invece mettono in luce un lato di questa esperienza, cioè la gravidanza e il parto, che ha a che fare col corpo e che non a caso chiamano oscuro, tremendo, che si tende a tacere».
Generare è prima di tutto un’esperienza corporea?
«Generare ci mette in contatto con la natura, che è rigenerazione continua, rendendoci complici del processo generale della generazione. In questo senso l’esperienza della maternità, che è tutt’altro dalla cura dei bambini, permette una forma di conoscenza».
Rispetto al parto, nel libro riprende un tema presente già in “Nonostante Platone” l’appropriazione da parte del maschile dell’atto di generare.
«Platone disse che la filosofia è partorire con l’anima le idee. Attraverso i discorsi, il maestro faceva partorire agli allievi le idee delle quali erano gravidi. Nel “Simposio” Platone utilizza il linguaggio del parto, ginecologico, per descrivere la nascita delle idee. Da una parte si appropria del potere generativo delle donne, dall’altra lo squalifica come poco importante, non interessante in quanto mera produzione di corpi. Il parto vero, per lui, è quello delle idee, universale, ovviamente maschile».
Parlare di maternità oggi è rischioso?
«È difficile parlarne in termini positivi, e non della sua incidenza negativa rispetto al libero affermarsi di una soggettività femminile. Nella nostra cultura la maternità è stata tradotta nel dovere di generare. Il femminismo, soprattutto a partire da “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir, ha messo in luce la costrizione delle donne in un ruolo riproduttivo, domestico. In quanto trappola, e in favore di un discorso sulla libertà della soggettività femminile, la maternità è diventata un tema da evitare. Penso tuttavia che occorra riflettere su questo strano potere di generare, come lo definiva Virginia Woolf: come filosofa il mio compito è di restituire significato ai fatti, e un fatto è che ogni essere umano nasce dal corpo femminile».
Cosa pensa del dibattito attuale intorno al linguaggio?
«Il linguaggio è un tema fondamentale, così tanto che ne ho scritto il libro, insieme a Olivia Guaraldo, che uscirà il 10 settembre per Mondadori. S’intitola “Donna si nasce” e riflette sul linguaggio inclusivo, sull’utilizzo della schwa, sulla questione gender e della differenza sessuale. È un libro divulgativo che ritengo molto coraggioso, che ci ha richiesto un enorme sforzo di chiarezza».
Nell’attesa di leggerlo, quali letture ci consiglia?
«Tutta la grande letteratura: Mann, Tolstoj, Balzac, Woolf, Austen, Blixen. E pensatrici come Arendt, Weil, de Beauvoir, personalmente mi fido poco della mano maschile che descrive la maternità perché temo sia molto stereotipica».
Alla luce delle sue riflessioni, quale può essere la libertà per le donne?
«La libertà femminile non è un’imitazione pura di quella maschile. Su certi aspetti si somigliano, l’uguaglianza dei diritti risale alla Rivoluzione Francese e vale per tutti, ma per altri è qualcosa di diverso. La libertà è una costruzione politica che si concretizza nella comunità, pertanto l’esperienza della libertà si realizza insieme agli altri, nella relazione all’interno di un contesto. Non ci può essere una via individuale, solitaria verso la libertà ed essa non coincide mai, come si pensa erroneamente oggi, con il fare ciò che si vuole».
Siamo tutti individualisti?
«Il grande vizio della modernità è l’individualismo, quello che chiamano neoliberale, il cui unico rimedio è, a mio avviso, la valorizzazione della relazione. Questo significa che, per il fatto di essere al mondo, ognuno di noi è legato agli altri, condizionato dagli altri ma nell’accezione positiva del termine. La parola condizionamento ha spesso un significato negativo, pregiudicante la libertà individuale, mentre sottintende un legame, una relazione con gli altri. Credo sia una bella parola, sentirsi legati e anche in debito verso la natura, gli altri. La relazione è il rimedio».
(Quotidiano Nazionale, 1° settembre 2024)