di Alessandra Pigliaru
«Il ricordo di un sogno», l’ultimo libro di Rosi Braidotti edito da Rizzoli. Un memoir che omaggia le sue antenate, a partire dalla madre Bruna. E che attraversa il secolo scorso. I luoghi narrati partono da Latisana, nella bassa friulana, e arrivano fino all’Argentina, passando per l’Australia e il ritorno in Europa. Tra il dolore di guerre e distruzioni.
«Scrivi, Rosi, che la scrittura è amore, compassione e perdono». Brillano queste tre parole nell’ultimo libro di Rosi Braidotti, Il ricordo di un sogno (Rizzoli, pp. 407, euro 19), memoir in cui la filosofa femminista rende grazie alle sue antenate fin dall’eco del sottotitolo: una storia di radici e confini. Quella anzitutto di essere situata in una nascita, nel 1954 a Latisana, nella bassa friulana, e ritrovarsi presto migrante, in Australia e poi nuovamente in Europa, a Parigi e Utrecht in particolare.
A esortarla fin da ragazzina alla parola scritta è la madre Bruna, pietra angolare del libro e della sua esperienza di figlia che dal sé passa al «noi». Descritta come inventrice di mondi, Bruna è una moderna Sherazade. Se nelle radici riecheggia la foto che una bambina trova dentro un baule e che consente la ricerca che la porterà a trovare l’origine della sua famiglia sparsa nel mondo, nei confini abita il Novecento carico di guerre, dolori e liberazioni. Il ricordo di un sogno è il frutto maturo di un patto d’amore e al contempo, nel metodo, la possibilità di conoscere lo scandaglio appassionato che ha distinto le diverse traiettorie teoriche che in questi anni hanno segnato il percorso critico di Rosi Braidotti.
Filosofa femminista, è a lei che dobbiamo volumi importanti che rimangono delle letture decisive di generazioni di studiose, accademiche e attiviste. Da Soggetto nomade (1995, la cui prima edizione italiana è per Donzelli) alla trilogia dedicata al Postumano (di cui DeriveApprodi ha cominciato la pubblicazione nel 2020 ma che indica un’acribia trasformativa e rara dell’idea stessa), notevoli sono gli innesti che costellano saggi come Dissonanze (La Tartaruga, 1994) o il piccolo e splendente Madri, mostri, macchine (manifestolibri, 1996) e altri come In metamorfosi (Feltrinelli, 2003) o Trasposizioni (Luca Sossella, 2008). A raccontare insomma il lavoro di Braidotti in questi anni, nelle sue traduzioni in svariate lingue (oltre 20) e anche qui in Italia – di cui si ricordano almeno i nomi di Anna Maria Crispino e, in tempi più recenti, di Angela Balzano – viene a illuminarsi una direzione il cui filo è da riannodare dal 2003, ovvero dal suo contributo al volume Baby Boomers, edito da Giunti e scritto insieme a Serena Sapegno, Roberta Mazzanti e Annamaria Tagliavini e che ora si può leggere, con una selezione di altri testi di orientamento simile e più strettamente autobiografico, in un libro edito da Castelvecchi del 2021 e dal titolo Fuori sede.
Il ricordo di un sogno è la memoria, storica e inconscia, di una parabola esistenziale di cui Braidotti è sismografo scrivente e che specialmente omaggia le donne della sua famiglia, talvolta altrettante bambine – come Maria quando spunta dal buio di una sofferenza materna o cammina in solitudine – da Udine verso Modigliana, vicino a Firenze – per raggiungere uno dei campi profughi in allestimento «per gente in fuga come lei». Siamo nel 1917 ma gli eventi raccontati, moltissimi, scandiscono la devastazione anche della seconda guerra mondiale, per esempio nella fisionomia di frontiera che assume il Friuli-Venezia Giulia durante la guerra fredda con una conseguente e profonda dispersione.
L’albero genealogico è il genogramma tracciato dall’autrice, i cui luoghi del mondo sono numerosi, ed è tuttavia un’operazione intimamente politica, là dove l’intreccio di Gilles Deleuze e Luce Irigaray (per nominare solo due dei riferimenti cruciali di Braidotti) si esprime in questo ultimo libro come il romanzo di una vita da sempre in divenire. Archivio desiderante e bussola per trovare il proprio posto, a partire da un incontro autentico capace di una promessa amorosa da enunciare al futuro.
Fin dalla «finestra cosmica» da cui la piccola Rosi si sporge, inclinazione e racconto di una differenza sessuale mai punto di arrivo bensì di immaginari possibili, si arriva allora alla spazialità del soggetto nomadico. La pastoia delle lingue frequentate, delle parole che scivolano e slittano «fuori dal senso comune», sono ulteriori modi di comporre il «rizoma» che si inchioda nella intelligenza di Braidotti a partire da immagini generative: come quella del rododendro nominato per indicare l’oleandro e di cui, fino all’età di sei anni, non riesce a pronunciare la lettera «r». In questo salto di «ododendi» e «oleandi» il corpo, più avanti, assume l’anatomia intraspecie del Tagliamento che finisce in laguna e che le fa esclamare «My heartland», cuore ed entroterra. Si configura in un «sistema cardiaco-geografico indivisibile» ed è una delle tante visioni oniriche e immaginifiche delle mappe di Rosi Braidotti, che la complessità la prende molto sul serio da sempre. Come l’amore, la compassione e il perdono che ognuna deve a sé stessa, nel passaggio delle ere geologiche e delle età.
(il manifesto, 12 ottobre 2024)