di Irene Graziosi
Gisèle Pelicot è stata abusata per anni da più di cinquanta uomini, con la complicità del marito. La sua battaglia ci sta costringendo a ripensare i concetti di colpa e vergogna nei casi di violenza sessuale.
In questi giorni le prime pagine dei giornali mostrano il viso di Gisèle Pelicot, la donna settantaduenne divenuta famosa in tutto il mondo per essere la vittima del caso di stupro più impressionante degli ultimi anni. Suo marito, con cui si era ritirata in Provenza per la pensione, l’ha drogata e ha invitato quasi un centinaio di sconosciuti nel corso di più di dieci anni a violentarla. Gisèle Pelicot ha chiesto che il processo non si svolgesse a porte chiuse, rinunciando così alla sua privacy, nella speranza che il suo esempio possa essere d’aiuto ad altre donne vittime di violenza sessuale. Lo slogan che la signora Pelicot ripete più spesso è che la vergogna deve cambiare lato: non sono le vittime di stupro a doverla provare, ma gli aggressori.
È interessante l’utilizzo del termine “vergogna” al posto di “colpa”. Nei processi, nei reati, si cerca di stabilire la seconda, non la prima. Se la colpa è giuridicamente rilevante perché investe un’azione, la vergogna investe l’intera persona. La colpa, poi, a differenza della vergogna, richiede la consapevolezza del significato e dell’effetto delle proprie azioni. La vergogna no. Il senso di vergogna si internalizza da bambini come norma sociale implicita. I genitori ci dicono di non fare una certa cosa che sarebbe socialmente sconveniente. La prima cosa che mi viene in mente: indossare il pezzo di sopra del costume è un ordine che i genitori danno alle figlie quando cresce loro il seno, rendendole implicitamente edotte del fatto che il loro corpo, da quel momento, ha un potere erotico sconveniente, pericoloso. La vergogna dunque ha come funzione principale quella di mantenere ordine nella società, appoggiandosi a postulati ontologici sull’essere umano. Gli uomini non potranno fare a meno di guardare un seno, quindi il seno va coperto.
Se si fa un piccolo esperimento di genere (è stato fatto) e si chiede a uomini e donne di dire quali sono le cose che suscitano in loro vergogna, la differenza di genere della vergogna è evidente. Le donne ne provano di più e per ragioni legate alle aspettative sul ruolo sociale femminile: il corpo, la maternità, la sessualità, l’esposizione, la compostezza e via dicendo. Per gli uomini la vergogna è legata all’inadeguatezza e alla debolezza in determinati contesti che ne definiscono il ruolo in società. (Mi chiedo, a latere, se non sia l’assenza di aspettative sulla loro riuscita scolastica, lavorativa ed economica a far sì che le donne stiano un poco alla volta superando gli uomini in questi campi).
Ad ogni modo, la vergogna è un sentimento che non richiede una consapevolezza di tipo morale delle proprie azioni. Le ragazzine si vergognano di avere i pantaloni macchiati durante il ciclo o di non indossare il reggiseno, attirando gli sguardi maschili, ma difficilmente sapranno spiegare perché provano quel sentimento. La vergogna è interiorizzata come struttura sentimentale paralizzante e non espressa, ed è spesso alla base di un certo tipo di educazione piuttosto repressiva. Lo stesso varrebbe per gli uomini, se solo fossero educati allo stesso modo.
Durante il processo Pelicot, molti degli imputati si sono dichiarati innocenti, sostenendo di essere stati ingannati dal signor Pelicot, che gli avrebbe fatto credere che la moglie addormentata (e che addirittura nei video russa!) era in realtà consenziente. Che si trattasse, insomma, di un gioco erotico, non di una violenza sessuale. Alcuni uomini (non imputati) contattati dal signor Pelicot per prendere parte agli stupri hanno rifiutato ma non per questo denunciato alle autorità la condotta dell’uomo. Questa forma di meschina solidarietà maschile da parte di chi si è tirato indietro pur rimanendo omertoso sta indignando molti. Come si può essere così indifferenti? Stanno mentendo oppure davvero non si rendevano conto?
Il fatto è che per molti maschi, al di là del dato legale per cui lo stupro è un reato, l’istinto che lo sottende non lo è. C’è una sorta di complicità di fondo, di benevola comprensione, anche in chi razionalmente capisce la legge, e in alcuni casi la attua.
Per esempio: gli avvocati della difesa nel processo hanno mostrato pubblicamente le foto intime della signora Pelicot, quelle scattate da sveglia e consenziente con il marito. La ritraggono nuda, in pose provocanti, mentre utilizza vari sex toys (hanno provato ad accusarla di essere avvezza a certe perversioni, e quindi in fondo consenziente anche agli stupri). Questi stessi avvocati hanno però chiesto che i video degli stupri fossero visionati privatamente. Il giudice ha accettato: il contenuto era troppo sconvolgente. Quindi: la vittima la vergogna la deve gestire, per gli uomini è troppo. Non l’avevano mai interiorizzata prima, evidentemente.
La vergogna deve cambiare lato, e la coraggiosissima signora Pelicot fa bene a esigere questo ribaltamento, che è sociale, di genere e culturale. Ma a noi sta un altro compito, che contribuirebbe ad ampliare e approfondire il discorso portato avanti da Pelicot: capire che farcene del sentimento di colpa. Se la vergogna scaturisce da una morale che può non coincidere con la propria, il sentimento di colpa invece nasce da una presa di coscienza individuale, dal riconoscimento di una morale personale, che non ha bisogno, per esistere, di essere espressa all’altro. Non c’è bisogno dello sdegno altrui per sentirci in colpa. Il sentimento della colpa è pensato e riconosce l’altro come soggetto ferito da un’azione commessa. Forse, da spettatori, potremmo provare a capire come fare a far sì che il senso di colpa si sviluppi al pari di quello della vergogna. Altrimenti finiamo per dare per scontata una visione molto cinica del maschio, che implica che, nella maggior parte dei casi, sarà più semplice per lui sentirsi a disagio socialmente per aver violato una norma collettiva che riconoscere la donna come essere umano.
(Lucy. Sulla cultura, 24 ottobre 2024)