25 Ottobre 2024
Corriere della Sera

Berthe Morisot, storia della prima donna impressionista

di Roberta Scorranese


Due mostre in Italia ricordano la figura dell’artista, pioniera di un genere


Se per il centenario del futurismo (nel 2009) in Italia si è fatto poco, le celebrazioni dei primi 150 anni degli impressionisti sembrano non finire mai. E di quella pionieristica mostra allestita a Parigi il 15 aprile del 1874 si continua a parlare anche in Italia e a volte da prospettive poco familiari, per esempio attraverso la pittura delle donne. Avviene così che dopo decenni di silenzio o quasi, due città in contemporanea, Torino e Genova, dedichino una mostra a Berthe Morisot, la prima donna impressionista, nonché una delle figure più importanti del movimento reso famoso da Monet e da Renoir. A Genova “Impression, Morisot” (Electa) sarà allestita a Palazzo Ducale fino al 23 febbraio, mentre la Gam di Torino ospita “Berthe Morisot, pittrice impressionista” (24Ore cultura) fino al 9 marzo.

Non è stata l’unica pittrice impressionista, ce ne saranno altre e famose (per esempio Mary Cassatt), però Morisot è stata l’unica donna a esporre in quella celebre mostra ospitata nell’atelier di Félix Nadar, al 35 di rue des Capucines di Parigi. Al di fuori del Salon ufficiale, Monet, Pissarro e altri decisero di esporre per proprio conto, affrontando le (inevitabili) critiche dalle quali nascerà per paradosso il termine “impressionismo”, coniato dal critico Louis Leroy quando volle parlare male del bellissimo Impression, soleil levant di Claude Monet, del 1872. Berthe Morisot, in quella occasione, espose il suo dipinto più toccante, anche questo del 1872: La culla. Raffigura una madre finemente vestita che veglia con dolcezza il suo bambino nel sonno. Sarà questo dipinto a consacrarla nella storia dell’arte, ma non solo: è proprio qui che Morisot ricava quella “singolarità” di cui scrisse Paul Valéry parlando di lei, quella originalità che permise a una donna di entrare a far parte di una cerchia d’artisti.

Ma forse, per parlare di Morisot, è più utile partire dalla fine, dalla tomba: se andate a visitarla, nel cimitero parigino di Passy, scoprirete che le tombe di Berthe e del gigante della pittura francese, Édouard Manet, non sono tanto distanti. In fondo erano cognati, lei aveva sposato il fratello di lui. Eppure, se a ricordare la grandezza del pittore si erge un alto busto commemorativo, la tomba della pittrice è contrassegnata solo da una scarna epigrafe: «Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet». Peggio ancora fece l’anagrafe della capitale francese quando registrò la sua morte, avvenuta nel 1895 a soli cinquantaquattro anni, a causa di una polmonite: nel certificato di avvenuto decesso scrissero «Berthe Morisot, senza professione». Bruciando così, in poche righe, una intera vita dedicata all’arte e alla sperimentazione.

Morisot era nata in una famiglia colta e benestante, nella quale l’arte non era bandita, anzi: sia Berthe che le sue sorelle Yves e Edma avevano preso lezioni private di pittura. Però, nelle intenzioni della madre Cornélie, queste dovevano servire a un intento preciso, cioè renderle “coltivate” e pronte per una vita sociale ricca e brillante.Detto in poche parole: dovevano servire a maritarle bene. Il problema fu che Berthe cominciò a pensare come un’artista vera e dunque quando andava nei grandi musei come il Louvre e copiava diligentemente i corpi pieni di Rubens, non si lasciava ingabbiare in un banale compito accademico. Studiava l’anatomia, le espressioni, le tecniche. Solo così si diventa bravi davvero, copiando con originalità. E allora un artista molto popolare all’epoca, Henri Fantin-Latour, la notò e le presentò Édouard Manet.

Questo, nella seconda metà dell’Ottocento, poteva essere una svolta nella carriera. Perché conoscere Manet non voleva dire solo entrare a far parte di un giro di conoscenze importanti nell’avanguardia, ma era anche come imboccare una direzione tutta nuova, distante dai canoni dell’accademia, considerare insomma l’arte come un territorio di coraggiosa sperimentazione. E i timori della madre di Morisot assunsero una concretezza allarmante: come può una donna dell’Ottocento pensare di fare l’artista e, per giunta, l’artista “sperimentale”, contraria ai dettami della tradizione? Sopravvivrà? Berthe sapeva bene che avrebbe dovuto muoversi con intelligenza: non diventare “di maniera”, ma nemmeno poteva permettersi quello che aveva fatto Manet nel 1863, quando diede scandalo con Le Déjeuner sur l’herbe, un dipinto nel quale una donna completamente nuda si lascia ritrarre in una quieta conversazione con due uomini vestiti, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.

Morisot aveva osservato e studiato il lavoro del maestro, anche perché lui la ritrasse in numerosi dipinti. E quindi sapeva che lo “scandalo” in questo caso non stava tanto nel nudo in sé e per sé(le sale del Louvre erano piene di nudi pittorici) quanto nel fatto che quella donna era una cortigiana conosciuta in tutta Parigi, quindi la provocazione di Manet consisteva nell’inserire in una dimensione quasi rinascimentale (tizianesca) il corpo e il viso di una modella molto chiacchierata. Morisot comprende che non bastano l’originalità del tratto pittorico o la tecnica o i temi – peraltro, alle donne era permesso poco anche in questo senso. Comprende che deve trovare una sua “singolarità” e così si colgono bene le parole che a lei riservò un grande critico come Paul Valéry, nel 1941: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».

Rimase così nell’alveo tematico del femminile: culle, madri, bambini, giovani donne, eleganti signore. Ma torniamo a osservare La culla, il dipinto che venne esposto nella prima mostra impressionista: nulla si ferma al dettame accademico, nulla è stereotipato. Non c’è una madre vestita di retorica, ma nell’osservare la piccola si coglie, assieme alla dolcezza, una certa apprensione, come un presagio dei tempi che verranno. E c’è un’ombra di stanchezza, modernissima perché la figura della madre, idealizzata da secoli di pittura, qui comincia ad assomigliare alla realtà. La maternità è tutt’altro che riposante, come ci dirà più apertamente in seguito Louise Bourgeois. Ecco perché questo dipinto piacque prima di tutto agli uomini, che apprezzarono molto anche le altre opere di Morisot, attenta a calibrare la sperimentazione con un gusto personale, un’attitudine. L’artista restò legata a Manet per tutta la vita e il matrimonio con il fratello del pittore sigillò un sodalizio segreto, quasi carbonaro tra i due. Per Berthe fu come scegliere una strada, quella dell’avanguardia, con un’enfasi e uno spirito critico che le fecero affrontare le inevitabili difficoltà. Infatti le sue opere – come anche quelle degli altri impressionisti – vennero criticate aspramente dai conservatori, ma per lei ci fu una punta di veleno in più in quanto donna. Per esempio, una volta fu insultata in pubblico da un avventore che la chiamò “prostituta”, scatenando la reazione violenta di Camille Pissarro. Morisot non arretrò di un passo, anzi. Negli autoritratti che – via via sempre più di frequente – riservò a sé stessa, la si vede ora madre e ora gran dama a suo agio nell’alta società. Grazie alla pittura, ha raccontato la sua vita e così trovano un senso compiuto le parole di Paul Valéry: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».


(Corriere della Sera, 25 ottobre 2024)

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