di Guido Viale
Nessuno stupore che il Presidente della Comunità autonoma di Valencia, Carlos Mazón, cerchi di bloccare le carovane di giovani e di persone solidali che accorrono nelle zone colpite dall’alluvione per portare il loro aiuto: acqua, viveri, abiti asciutti, coperte, medicamenti. E per spalare il fango, liberare chi ne è rimasto imprigionato, salvare ciò che ancora può essere salvato. «Ai volontari dico – ha detto – tornate a casa». Perché?
Innanzitutto, perché è un uomo di destra e un negazionista climatico; non vuole che si diffonda la percezione diretta delle dimensioni del disastro che si sta rivelando molto maggiore di quanto accertato finora. È uno che, come dice Altan, pensa che «Il sedicente cambiamento climatico da anni ci prende alla sprovvista». Quindi, non è successo niente che giustifichi la presenza di quei volontari. Poi, per far dimenticare di non aver dato l’allarme e, anzi, di aver tranquillizzato i suoi concittadini-elettori quando ancora poteva salvarne molti. L’allarme lo dà invece adesso, per bloccare i soccorsi: «Le strade possono crollare» avverte, perché l’emergenza non è finita. Poi, ancora, perché vuole controllare tutto. Infatti, ha impedito anche ai pompieri dell’odiata Catalogna di venire a prestare il loro aiuto; bastano quelli locali, che però non l’hanno presa bene… Ma, soprattutto, perché teme il volontariato, l’iniziativa dal basso, la mobilitazione popolare e soprattutto l’attivismo dei giovani; perché nella solidarietà attiva si creano relazioni, organizzazione, comunità, spirito critico, autonomia. Le premesse di un orientamento alternativo a quella soggezione che permette a chi comanda di gestire le cose a proprio piacimento. E ne potrebbe anche nascere una prospettiva radicalmente alternativa all’inerzia con cui i negazionisti, ma non solo loro, mandano avanti i loro affari cercando di nascondere i rischi che incombono sulle vite e la convivenza di tutti.
Il pensiero corre ovviamente ai cosiddetti “angeli del fango”: la marea di giovani accorsi spontaneamente per far fronte ai danni dell’alluvione di Firenze del 1966, una mobilitazione che aveva colpito chi già allora deprecava consumismo, disinteresse e passività nei giovani di sessant’anni fa. Ma c’erano, in quella mobilitazione, i segni riconoscibili, ancorché in gran parte non riconosciuti, di quella che un anno dopo sarebbe stata l’esplosione del ’68: prima nelle università e nelle scuole, poi tra i giovani operai delle fabbriche, poi in tutta la società.
Un processo registrato dapprima come una rivolta non priva di simpatie nel mondo benpensante, poi inquadrato come una sua “degenerazione ideologica”, per essere poi definitivamente archiviato come “anni di piombo”. Ma quello che era sfuggito allora ai commentatori, e che sfugge ancora oggi agli epigoni della denigrazione del ’68, era il fatto che accanto alla rivolta e al conflitto, e come loro ispirazione e supporto, c’era la scoperta della solidarietà, del valore delle relazioni non formali tra eguali, la creazione di uno spirito comunitario e di una cultura critica che avrebbe permesso il protrarsi di quelle mobilitazioni per quasi dieci anni e anche oltre: soprattutto in Italia, ma un po’ in tutto il mondo. Ciò che rende ragione degli sforzi messi in atto a livello globale per screditare, smorzare e poi affossare per anni quello spirito.
Poi, per avvicinarsi al nostro tempo, accanto a molti altri episodi abbiamo avuto una anticipazione di quello che succede oggi a Valencia con il terremoto dell’Aquila. Una voluta – per motivi di consenso – sottovalutazione da parte delle autorità del rischio incombente, mandando al macello centinaia di vite; poi uno sforzo indefesso per stroncare, purtroppo con successo, l’organizzazione, guidata soprattutto dai giovani, che si era andata costituendo nei campi degli sfollati per contrastare e sopperire alla criminale gestione del dopo-terremoto da parte di Berlusconi e della sua banda. Anche le alluvioni in Romagna avevano visto una grande ondata di solidarietà attiva, soprattutto di giovani. Proprio in quei giorni La Russa, che non se ne era accorto, aveva invitato «i giovani» ad andare a spalare il fango invece di imbrattare i monumenti. Ma quelli lo avevano preceduto facendo entrambe le cose, perché sanno che oltre a rimediare ai danni della crisi climatica occorre fare tutto il possibile per costringere i governi a prevenirla.
Oggi probabilmente un inizio come quelli si ripropone a Valencia e dintorni e gli sforzi di Mazón per tenere i volontari lontani dall’esercizio della loro solidarietà si spiega bene con la consapevolezza che eventi come quelli di Valencia sono destinati a ripetersi e a moltiplicarsi, anche se in altre forme, in altri luoghi e in altri tempi; e con essi, il consolidarsi delle reti di solidarietà. Una consapevolezza che accomuna tanto chi vuole combattere la deriva imboccata dalla crisi climatica e ambientale, e tra questi soprattutto i giovani, quanto i negazionisti che costruiscono il loro consenso sulla falsa promessa che nulla cambi.
Ma c’è in tutti, anche se non in maniera chiara, l’idea che la solidarietà, le relazioni, lo spirito di iniziativa e l’autonomia che si sviluppano in una mobilitazione come quella che si è messa in moto a Valencia, se riusciranno a consolidarsi, possono costituire l’embrione di una alternativa, sociale e culturale, prima ancora che politica, in grado di misurarsi con le dimensioni della crisi ambientale e climatica. Abbiamo visto negli ultimi anni un movimento di giovani, innescato dagli “scioperi” di Greta Thunberg e poi affiancato da altre organizzazioni e reti impegnate nella stessa battaglia, che hanno messo all’ordine del giorno, con modalità differenti e alterne vicende, la crisi climatica e ambientale come sfida esistenziale per la loro generazione e per tutte quelle a venire. Finora non hanno trovato l’occasione per consolidarsi in un processo capace di garantirne la continuità o la riproposizione in forme più efficaci: ma la frequenza, l’intensità e la gravità dei disastri climatici che ci attendono sono destinati a diventare altrettante occasioni per imporre una svolta radicale alle politiche ufficiali, quelle che alla crisi ambientale rispondono con l’inerzia e il business as usual.
(il manifesto 5 novembre 2024)