10 Novembre 2024
La Stampa

Basta con il plurale, non tutto è femminismo

di Annarosa Buttarelli


Sui manuali di storia più attenti alla storia dell’umanità si trova scritto che, nel ’900 e a parte quella freudiana, l’unica rivoluzione riuscita senza spargimento di sangue e senza presa del potere è quella femminista. È vero, anche se trovo imprecisa l’indicazione perché, in realtà, si dovrebbe dire che è l’unica rivoluzione in corso: come sosteneva Carla Lonzi, il femminismo è «l’eterna istanza delle donne». La sua bellezza, la sua eleganza e le sue ragioni vanno mantenute, insieme alla sua radicalità, qualsiasi sia l’istanza femminile che porti avanti. Ma le cose si stanno ingarbugliando e confondendo, tanto che si è obbligati ormai a parlare di “femminismi”, usando malamente quel plurale che piace tanto agli adoratori e alle adoratrici del caos cognitivo contemporaneo. Il femminismo è diventato un campo di battaglia, almeno in Italia, ma non nel nobile senso che aveva dato a questa espressione Etty Hillesum, descrivendo il suo obbligo a farsi lei stessa campo in cui si scontrano e si evidenziano le più abissali contraddizioni. Oggi, tempo di guerre e di rigidi schieramenti identitari, il campo di battaglia che è diventato il femminismo sta mostrando una certa perdita di orientamento e di radicalità, parola quest’ultima che sta ad indicare un’etica della differenza sessuale, come Luce Irigaray auspicava si costruisse per mostrare anche il disgusto femminile per la violenza sui corpi, non solo delle donne. Se il femminismo, inteso come movimento e non come somma di gruppi identitari, diventasse luogo di scontri violenti e non, invece, di conflitti fecondi come sempre è accaduto per differenze interne inevitabili ma compatibili, allora diventa un obbligo fare chiarezza pubblica e indicare ciò che non può accreditarsi pubblicamente con il nome di “femminismo”. A proposito: è di questo periodo lo stupore di gran parte delle femministe per l’attribuzione a Giorgia Meloni del titolo di “icona del femminismo”; la si elogia perché «vive all’interno di un matriarcato» (sic!); la si propone addirittura, lei il presidente, come colei che «ha reso femminile la politica», e invece le donne di sinistra, poverine… Questo disinvolto uso di frasi a effetto si accompagna all’accreditamento politicamente corretto delle donne “di destra” come esemplari femministe. Bisogna avere il coraggio di fare chiarezza: le magnifiche sorti e progressive della donna che riesce a imporsi ai compagni di partito con una leadership (anche come premier di governo) non possono essere separate dai contenuti che il suo governo impone alla nazione. Da quando la forma non è anche il contenuto? La carriera personale è ammirevole e legittima, ma con il femminismo c’entra di striscio, e forse neanche, se non è inscritta in un orizzonte di contenuti condivisi dal movimento femminista. Il femminismo di tutti i tempi si è battuto soprattutto per la giustizia sociale, primariamente intesa come dovuta alle donne, ma non solo alle donne, sia chiaro. Si è battuto sempre e anche ora e anche domani per la libertà femminile (e di tutti) e per l’autodeterminazione delle donne. Cosa rimane di femminismo in una ministra che chiede ai medici di denunciare le coppie che hanno praticato la cosiddetta maternità surrogata all’estero? Non rimane nulla. C’è un grosso discrimine, infatti, utile per verificare l’appropriatezza del vanto di praticare il femminismo (e addirittura quello della differenza sessuale, il più eticamente radicato) da parte dell’attuale governo, e da parte delle donne che lo sostengono. Il discrimine è questo: le cosiddette destre di ieri e di oggi agiscono con la privazione progressiva delle libertà, anche individuali; elaborano soprattutto norme punitive agevolando la formazione di regimi di stretta sorveglianza sociale; restringono o azzerano la libera espressione del pensiero; millantano di occuparsi del bene del popolo mentre attaccano i beni comuni come lo sono la cultura, la sanità, ecc. ecc. Tutto questo è senza ombra di dubbio distruttivo della libertà femminile di ieri, di oggi e di domani, conquistata con ammirevole pazienza nel corso di due millenni.


(La Stampa – Lo Specchio, 10 novembre 2024)

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